La storia delle famiglie del vino in Toscana – Prima parte

La storia delle famiglie del vino in Toscana – Prima parte

Territori
di Florence Reydellet
08 luglio 2021

Con profondo affetto per la sua terra, Massimo Castellani ci ha accompagnato per mano nel primo dei due incontri di WHO (Wine, Host, Opinion) dedicato alla storia di alcune famiglie toscane - famiglie di nobile schiatta - che misero loro stesse «per l’alto mare aperto» e tracciarono a poco a poco le rotte vitivinicole della regione.

La serata si apre con la celeberrima famiglia Antinori la cui esistenza è documentata fin dal 1176. Di attività vitivinicola si cominciò a parlare nel 1385, anno in cui Giovanni di Piero entrò a fare parte dell’Arte dei Vinattieri di Firenze. Molteplici furono i componenti famigliari che contribuirono a plasmare l’identità territoriale. Ne nomineremo due: il dotto Antonio Antinori, a capo della Congregazione che redasse il bando emanato da Cosimo III nel 1716 bando antesignano dell’odierna denominazione Chianti Classico e, nel ventesimo secolo, Piero Antinori, colui che collaborò con l’enologo Giacomo Tachis e puntò su uvaggi affratellando l’autoctono sangiovese agli alloctoni cabernet sauvignon e cabernet franc. Esperimenti, questi, dai quali scaturirono i Supertuscan Tignanello (1971) e Solaia (1978). Anno fondamentale fu il 2000 quando il Solaia 1997 venne eletto miglior vino al mondo dalla rivista Wine Spectator. Oggi, che sono passati i lustri, dalle tenute Antinori nascono liquidi assurti a mito enoico, mito che riecheggia nell’idea architettonica delle loro cantine.

Altra saga di notevole interesse è quella dei Frescobaldi. Può affermarsi che ebbero un percorso tanto lungo - approdarono a Firenze 800 anni or sono - quanto costellato di personaggi di multiforme ingegno. Tra essi Massimo Castellani ci menziona Lamberto Frescobaldi, che si diede alla costruzione del primo ponte di Santa Trinità (1252); Dino, che recapitò a Dante i primi sette canti dell’Inferno, lasciati dal Sommo a Firenze al momento dell’esilio; Stoldo di Lamberto, finanziatore dell’ultima opera architettonica di Filippo Brunelleschi (1444). La loro avventura vinicola iniziò nel 1308 e conobbe un clamoroso successo commerciale tanto che, nel Cinquecento, i loro vini riscossero l’encomio financo da Michelangelo ed Enrico VIII. Passarono i secoli e, nell’Ottocento, arrivò Vittorio degli Albizi (imparentatosi con la famiglia) che traghettò l’azienda nell’era “moderna” e portò una ventata di novità nelle tenute di Pomino e Nipozzano introducendo vitigni di stampo “borgognone” e tecniche di vinificazione innovative. Dopo oltre 700 anni dediti alla terra e ai suoi frutti, Lamberto Frescobaldi perpetua oggi la fama delle loro tenute. Missione compiuta! Basti citare alcuni loro caposaldi quali i Supertuscan Ornellaia, Masseto e infine Luce.

Mazzei, invece, è nome che celebra la Storia. Già nel 1398 si deve all’antenato Ser Lapo Mazzei il primo documento conosciuto in merito all’uso della denominazione "Chianti". Sarebbero da rammentare moltissime figure, ma ci accontenteremo – per dovere di sintesi – di citare quella di Filippo Mazzei scelta dovuta al fatto che non solo fu l’uomo illuminato, dalle idealità incorrotte, al quale venne attribuito l’incipit della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti: «Tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti», assioma che di più alto ha solo il cielo. Ma anche perché egli prese a governo, con l’aiuto degli illustri amici Samuel Adams e Thomas Jefferson, 700 acri di terra in Virginia, dando così vita a quella che diventerà la prima Wine Company americana. Ai giorni nostri, sono Filippo e Francesco a mantenere saldo il timone dell’azienda. Resta da dire, infine, che la cantina del Castello di Fonterutoli – dalla quale nascono le 3 Gran Selezione Badiòla, Castello Fonterutoli e Vicoregio 36 – è magnifica.

Il racconto di Massimo Castellani prosegue con la famiglia Ricasoli, i cui albori si perdono nelle rovine del tempo, che fondò una delle primissime cantine al mondo e, verosimilmente, la più antica d’Italia. La loro epopea iniziò nel 1141, anno in cui il Castello di Brolio fu donato dalla Repubblica Fiorentina ai fedeli alleati, i Ricasoli appunto. Conobbero ben presto un fragoroso successo sul mercato nazionale esportando i loro vini, già nel Seicento, oltre i confini locali. Il personaggio chiave della vicenda rimane inconfutabilmente il “Barone di Ferro”, Bettino Ricasoli, che succedette a Cavour nella guida del neonato Regno d’Italia. Autentico pioniere - che poté seguire la vigna e poi il vino - avanzò, in una lettera del 1872, l’idea enologica della “ricetta” chiantigiana: suggerì il sangiovese come cardine (a garantire «la dose principale del suo profumo»), diede un ruolo di minor importanza al canaiolo e relegò le uve bianche a un ruolo marginale. E non è certo un caso se il primo disciplinare del Chianti, risalente al 1967, prese a base la formula di Bettino. Dopo vari passaggi di mano la proprietà è tornata alla famiglia e l’immane distesa dei loro vigneti - 240 ettari precipuamente dediti al sangiovese - lasciano facilmente intuire che sia, ad oggi, la più grande azienda del Chianti Classico.

Ben poche sono le famiglie italiane che possano vantare, come quella dei Biondi Santi, di essere capostipiti di una denominazione, nella fattispecie quella del Brunello di Montalcino. Affondarono le loro radici a metà Ottocento, quando Clemente Biondi Santi acquisì il podere “Il Greppo” sul fazzoletto ilcinese. Fu questi che aprì il sentiero al personaggio rivelatosi decisivo per le sorti della famiglia: Ferruccio, l’irriducibile garibaldino. Ferruccio seguì i dettami e proseguì le sperimentazioni in itinere del nonno Clemente, individuò il clone brunello che diventerà l’attuale sangiovese grosso e scelse di vinificarlo - detto in brutto gergo - “in purezza”: ne uscì un liquido vernacolare, nato per abitare le iperboli, consegnato a un’evoluzione lenta. Più in là, l’avvento di Tancredi consentì la traiettoria ascendente della cantina. Basti far presente che, nel buio periodo fillosserico, quest’ultimo creò la “Biondi-Santi & C. Cantina Sociale” per salvare il comparto vinicolo della zona. Lungimiranza pura, dunque, e riflessività. Impossibile non ricordare, infine, che la rivista Wine Spectator nominò un solo vino italiano fra i 12 apostoli del Novecento: la Riserva del 1955 dell’enologo Franco Biondi Santi che - ci teniamo a ricordarlo - diventò sommelier onorario AIS su proposta di Massimo Castellani.

La nostra serata si conclude con coloro che fecero la storia di Bolgheri: gli Incisa della Rocchetta. Fu il piemontese Leopoldo - che scrisse, nel 1862, la «Descrizione dal vero di 105 varietà di uve» – a piantare il seme della viticoltura nella famiglia. Orbene, la vicenda “contemporanea” degli Incisa della Rocchetta ebbe inizio con il nipote, il marchese Mario, uomo poliedrico, appassionato di agraria nonché di ippica, che cambiò radicalmente l’idea enologica di Bolgheri. Questi ebbe la visione premonitrice dell’affinità di quel lembo di terra con quello delle Graves, superando il preconcetto che le coste italiane salmastre non potessero generare rossi da evoluzione. La frazione di Castagneto Carducci, in cui vi è la Tenuta San Guido, divenne il teatro dei suoi esperimenti: siamo nel 1942 e da qui comincia la storia dei cosiddetti “Supertuscan”. Impiantò, nella Vigna Castiglioncello, le prime barbatelle di cabernet sauvignon che vennero reimpiantate negli anni Sessanta - a quota più bassa - nell’attuale vigneto Sassicaia. Con l’annata 1968 il vino venne finalmente commercializzato e fra i primi a decantarlo con trasporto fu, peraltro, un “certo” Luigi Veronelli. Di seguito, l’arrivo di Giacomo Tachis permise all’impresa di raggiungere l’acme. L’annus mirabilis 1978 ne è il testimone: a Londra, nel corso di una degustazione alla cieca, il Sassicaia 1972 sconfisse i 32 cabernet sauvignon ritenuti migliori al mondo. Ecco, dunque, un vino che quasi non sente più il tempo e ci dice che, dalla salsedine, possono nascere vini dalla stupefacente evoluzione. E così dicendo, chissà mai, rende giustizia al mare.

Dopo queste ore, trascorse assieme a Massimo Castellani, ci siamo sentiti appagati. Del resto, respirare un pezzo di storia, talvolta, può servire. Soprattutto oggi.

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