Orvieto. Terra di fuoco e di mare

Orvieto. Terra di fuoco e di mare

Territori
di Anita Croci
21 dicembre 2023

Una complessa storia geologica e una tradizione colturale plurimillenaria affidano al vino l’immagine del panorama orvietano “roccioso e frondoso, tutto vigne e spelonche”, tra bianchi di finezza e carattere e millimetriche produzioni degli eccezionali muffati

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 25 Novembre 2023

Nella parte sudoccidentale dell’Umbria, a poca distanza dal confine con il Lazio, sorge Orvieto. Dai suoi 300 metri di altezza la città domina la piana del Paglia, fiume che poco più a valle confluisce nel Tevere. Poggia infatti sulla celeberrima rupe, un monolite tufaceo che “sorge come un’isola sul piano del fiume”, originatasi dai depositi dell’attività quaternaria del complesso vulcanico Volsinio, matrice degli omonimi monti e della caldera che ospita il Lago di Bolsena.

LA STORIA
Una copiosa quantità di ceramiche vinarie testimonia la familiarità tra Orvieto e il vino già diversi secoli prima di Cristo, con gli Etruschi e poi con i Romani. La facilità di lavorare il substrato tufaceo ha permesso già in tempi antichi di crivellare la rupe di grotte e gallerie progettate per la vinificazione: l’uva pigiata raggiungeva per caduta i livelli sottostanti, ideali alla conservazione del vino perché bui e umidi, ma ventilati e con temperatura costante; di contro, il freddo non permetteva alla fermentazione di concludersi, lasciando nei vini una gradita quota di residuo zuccherino. Sul vino si incentravano i guadagni e il prestigio della città, tanto che già nel Medioevo vigeva al riguardo una severa normativa, con tanto di “custodi delle vigne” a vigilare sulla qualità del prodotto così come sulla conduzione delle piante, per quanto allora le colture fossero promiscue e la vite maritata agli alberi. A metà del Quattrocento Orvieto entra definitivamente a far parte dello Stato Pontificio. La bellezza dei luoghi e la prossimità con Roma la rendono meta preferita di pontefici e porporati, contribuendo da un lato al fiorire economico e architettonico della città – dal Duomo, magnifico esempio di architettura gotica italiana, al Pozzo di San Patrizio, capolavoro di ingegneria, alla Fortezza Albornoz e molti altri –, dall’altro agli scambi commerciali con la capitale, sancendo nei secoli il successo del vino orvietano: dal Pinturicchio, che nel contratto per affrescare la cappella del Duomo ne pretese una fornitura illimitata, fino a Garibaldi e a Enrico Fermi, che lo scelsero per brindare ai rispettivi successi. Il Novecento ne inquadra luci e ombre: prima Doc dell’Umbria nel 1971, viene in larga parte banalizzato da imbottigliamenti massivi fuori regione. Una tendenza contrastata negli ultimi decenni dal proliferare di aziende medio piccole e dal loro felice impasto di approccio scientifico e tradizione, senza dimenticare gli interventi sul disciplinare a tutela di identità territoriale e qualità, nonché il lavoro operato dal Consorzio,volto a riaffermarlo tra le eccellenze della produzione bianchista italiana, con un’importante promozione sui mercati esteri.

Clicca sull'immagine per scaricare il PDF dell'articolo

IL TERRITORIO
Partendo dal basso, ovvero dai suoli, l’Orvietano - “terra di mare e di fuoco” per usare le parole del Prof. Scienza - offre alla vite un’eccellente pluralità di combinazioni dovute alla sua storia geologica, che ha ospitato mari e vulcani: argille e sabbie plioceniche, ricche di conchiglie e fossili marini, depositi alluvionali e materiale vulcanico di varia natura caratterizzano più o meno prevalentemente le diverse zone, per quanto la variabilità della loro distribuzione suggerisca di prestare maggiore dettaglio rispetto alla catalogazione per macro aree. Alla propensione viticola concorre inoltre la morfologia collinare, intervallata da quei picchi e rilievi isolati dall’erosione selettiva dei terreni magmatici più friabili, che rendono così suggestivo un paesaggio di notevole variabilità orografica ed eterogeneità di esposizioni, altitudini e pendenze; il territorio viticolo si sviluppa infatti sui due versanti opposti al corso dei fiumi: quello orientale, delimitato dalla dorsale montuosa dei monti Peglia e Citernella, e quello occidentale, connotato da un susseguirsi di colline che digradano verso il Lago di Bolsena. Il clima, mite e mediterraneo, è influenzato non poco dalla presenza di imponenti bacini e corsi d’acqua, con il Lago artificiale di Corbara da sommare a quelli già citati, condizione rilevante per la produzione dei preziosi muffati.

LE DENOMINAZIONI
La Doc Orvieto è una denominazione interregionale che abbraccia 18 comuni, di cui 13 in Umbria nella provincia di Terni e 5 in provincia di Viterbo, nel Lazio, riservata ai vini bianchi nelle tipologie Secco, Abboccato, Amabile, Dolce, Vendemmia Tardiva e Muffa Nobile, inclusa la qualifica Superiore. Da sola rappresenta circa un terzo di tutta la produzione regionale a denominazione di origine. Il disciplinare è stato oggetto di numerose revisioni; tra le più significative, l’introduzione della zona Classica, riservata alla sola Valle del Paglia, a ridosso della rupe di Orvieto, e quelle riguardanti la base ampelografica. All’inizio prevaleva nettamente il procanico (trebbiano toscano) con accanto una decisa quota di verdello (verdicchio), coadiuvati da grechetto, drupeggio (canaiolo bianco) e malvasia bianca lunga; riflettendo una situazione di fatto in cui, fino agli anni Sessanta, le diverse uve coabitavano su ciascun filare, impedendo sia tecniche colturali ad hoc che una vendemmia separata. Studi dedicati e viticoltura specializzata hanno poi messo in luce le qualità enologiche del grechetto, riconoscendogli un ruolo fondamentale nell’Orvieto e in tutta la viticoltura della regione. Oggi il disciplinare demanda proprio a questo e al procanico l’identità del vino, imponendoli per almeno il 60%, limitando al 40% altri vitigni idonei e non aromatici a bacca bianca. Da segnalare anche una “quota rossa”, rappresentata dal 1998 dalla Doc Rosso Orvietano, per quanto adombrata sia in termini numerici che di notorietà dalla produzione bianchista: nel 2020 l’Orvieto Doc contava una superficie rivendicata di oltre 1400 ettari e 88.000 ettolitri certificati, il Rosso Orvietano appena 31 e 548*. L’areale è sovrapponibile a quello dell’Orvieto, ma include solo i comuni ternani. La base ampelografica prevede aleatico, cabernet franc, cabernet sauvignon, canaiolo, ciliegiolo, merlot, montepulciano, pinot nero e sangiovese, che da soli o variamente combinati hanno già testimoniato risultati tutt’altro che trascurabili.

I VITIGNI PROTAGONISTI
Gli studi sui grechetti hanno portato all’individuazione di due vitigni distinti: il grechetto di Todi (detto anche “gentile” e corrispondente al pignoletto) e quello di Orvieto, il quale presenta un grappolo meno compatto e una maggiore consistenza dell’acino, più resistente alle malattie fungine e quindi più adatto a vendemmie tardive e appassimenti. Il suo punto debole è perdere velocemente l’acidità con la maturazione, motivo per cui nelle coltivazioni promiscue, raccolto insieme agli altri vitigni, veniva banalizzato. La sua capacità di conferire struttura e carattere all’uvaggio, con profumi intensi ed eleganti, lo rendono protagonista della denominazione insieme al trebbiano toscano: un’uva più neutra dal punto di vista aromatico, ma cui si può demandare l’accumulo di zuccheri senza rischiare di perdere l’acidità.

IL VINO
Il secco è il più diffuso, ma la tradizione dell’Orvieto era quella di vino dolce e più propriamente muffato, spesso preferito ai Sauternes. Come per altri, fu l’ampliamento dei mercati a indirizzare la produzione verso una tipologia più stabile (perché con il trasporto, senza le tecniche attuali, gli zuccheri tendevano a rifermentare in bottiglia), che a sua volta modificò il gusto contemporaneo del vino. Dei circa 40 produttori di Orvieto Doc, sono in pochi a proporre ancora la tipologia Muffa Nobile, che richiede un enorme lavoro in vigna e in cantina; quote di uva botritizzata possono concorrere anche alla realizzazione dei bianchi secchi, con risultati di imperdibile assaggio. “Vino etereo e vulcanico, vino di sole e di caverna, vino asciutto con un fondo dolceamaro” lo descriveva Soldati. Una visione poetica che non solo trae dall’impossibilità di tracciare genericamente il profilo organolettico di prodotti diversi ai quali concorrono molte e significative variabili (pedologiche, varietali ed enologiche), ma che coglie l’essenza di un territorio di abbagliante fascino e silenzioso mistero, che da sempre condensa tutti gli elementi naturali per trasporre nel vino un riflesso di storia e identità.