Ruché di Castagnole Monferrato. Il Piemonte che non (ti) aspetti

Ruché di Castagnole Monferrato. Il Piemonte che non (ti) aspetti

Territori
di Anita Croci
01 aprile 2020

Viniplus di Lombardia N°9 - settembre 2015. Dal 2010 rientra in una delle settantaquattro Docg italiane, per giunta tra quelle più vicine alla Lombardia e facilmente approcciabili; eppure molti ancora non lo conoscono, qualcuno nemmeno ne ha sentito parlare. A questi un avviso: non cedete a facili influenze francofone, il suo nome si pronuncia così com’è scritto, ruché e non ruscé.

Tratto da Viniplus di Lombardia N°9 - settembre 2015

Un’etimologia non certa, come spesso accade. Per molti legata alle roche, termine piemontese che indica le cime collinari impervie e solatie, con terreni calcarei e asciutti, dove quest’uva si esprime al meglio. Alcuni invece pensano al roncet, un virus che nei tempi passati colpì duramente i vitigni della zona ed al quale il ruché si rivelò eccezionalmente resistente. Altri ancora lo riconducono a San Rocco, ricordando la presenza nel territorio di una comunità benedettina devota al santo, la quale avrebbe introdotto la coltivazione di un vitigno importato dalla Borgogna o dall’Alta Savoia. Chissà. L’esame del dna per ora ci ha rivelato solo una minima percentuale in comune con il vicino brachetto, il cui corredo si rivela in parte nella caratteristica semi aromatica del ruché; forse un giorno questi studi ci indicheranno altre parentele o provenienze sorprendenti. Oggi però possiamo definire il ruché come un vitigno autoctono del Monferrato astigiano, con un carattere proprio assolutamente distinto da tutti gli altri vitigni, locali e non, con i quali è stato messo a confronto.

Sorprende allora che un vino nobile e antico, che la leggenda dice avesse accompagnato le milizie astigiane nelle crociate, appaia in tempi così recenti quasi dal nulla, come un “prodotto nuovo”. Dov’era finito il ruché? Guardiamoci indietro: nell’Italia contadina, l’uva veniva coltivata soprattutto per essere venduta a peso a chi il vino lo faceva di mestiere.
Doveva essere buona ed anche garantire un buon potenziale alcolico, ma la quantità era il fattore più importante di tutti; la qualità diffusa è un lusso arrivato col benessere. Un vitigno come il ruché, vigoroso e di buona produzione, ma molto sensibile alle annate, non garantiva alle famiglie la certezza del sostentamento. Qualche pianta però l’avevano quasi tutti, a Castagnole Monferrato e dintorni. Destinata al vino da fare in casa, ma non al consumo quotidiano: il ruché era il vino della festa, delle occasioni importanti. Come altri rossi blasonati, inizialmente non era un vino secco; quasi sempre amabile, non per scelta enologica ma perché, senza controllo della fermentazione, i lieviti spontanei non riuscivano a svolgere tutti gli zuccheri di un’uva così ricca. Difficile trovarlo in commercio, al di fuori ma anche all’interno della sua zona tradizionale di produzione.

Accade spesso, però e per fortuna, che l’amore possa sovvertire destini già scritti. La vicenda, questa volta un po’ bizzarra, è quella tra un sacerdote di paese ed una vigna abbandonata. Che la Chiesa abbia avuto un ruolo innegabile nella storia del vino europeo si sa: dai riti messali agli ordini monastici, custodi di tradizioni e colture ai tempi delle invasioni barbariche, ad un certo Dom Pérignon, a religiosi meno noti ma certamente determinanti per il territorio dove hanno operato. È il 1964 quando Don Giacomo Cauda arriva a Castagnole Monferrato; sono gli stessi anni in cui Don Giuseppe Cogno approda a Neive ed il canonico Joseph Vaudan fonda la cantina sperimentale dell’Institut Agricole Régional di Aosta. Col “beneficio parrocchiale” - quel complesso di beni immobili che esisteva quasi in ogni parrocchia fino agli anni Settanta - Don Giacomo ereditò anche un piccolo appezzamento di vigna dove si trovavano alcune piante di ruché. Il giovane sacerdote ne fu subito entusiasta: sistemò il vigneto in modo magistrale e con la stessa cura si dedicò alla vinificazione di quell’uva dal colore intenso, i profumi suadenti, il sapore lievemente aromatico; pochi anni e ne uscì il Ruché del Parroco. La sua opera non passò inosservata e l’attenzione per quel vino si fece via via crescente. Quando potere spirituale e temporale si uniscono, il successo è garantito: il sindaco di Castagnole, Lidia Bianco, un passato all’istituto di agraria di Asti, lavorò con impegno per l’ottenimento della denominazione di origine controllata: nel 1987 nacque il Ruché di Castagnole Monferrato DOC.

La DOCG arriva nel 2010, dopo un lavoro di consolidamento tra i produttori ed una revisione restrittiva del disciplinare, che non cambia però l’areale di produzione, già ben individuato nella prima stesura. Infatti, se l’esposizione e l’altitudine sono fattori significativi, fondamentale per questo vitigno è il suolo: quei terreni calcarei delle roche, poveri, sciolti e ricchi di fossili, dove il ruché meglio riesce a sviluppare la complessità della sua gamma aromatica.

Nulla impone il disciplinare in merito all’affinamento: vinificato per la maggior parte solo in acciaio, il vino viene messo in commercio nella primavera successiva alla vendemmia. Le caratteristiche varietali sono infatti così interessanti che anche il vino di annata è in grado di mostrare subito la propria identità, soprattutto se si ha la pazienza di concedergli una sosta in bottiglia di alcuni mesi. Non per questo dobbiamo etichettarlo soltanto come un vino di pronta beva. Non mancano infatti pregevoli esempi in legno grande e in barrique, che ci permettono di valutarne con successo l’evoluzione anche a distanza di alcuni anni.

Variegato il panorama produttivo: le aziende sono una quarantina, equamente divise tra imbottigliatrici e produttrici, di cui tre che da sole coprono il 40% del mercato; per alcune il ruché rappresenta solo un 10-15% della produzione globale, altre invece hanno legato a doppio filo il proprio nome a quello della denominazione e l’hanno sostenuta sin dagli albori sconosciuti, scrivendone la storia.
Con successo, visti i dati degli ultimi anni: con buona pace di barbera e grignolino, gli impianti di ruché sono passati dai 26 ettari del 2000 ai 120 ettari del 2014, la produzione da 1.517 a 6.082 ettolitri, di cui 680.293 bottiglie , destinate in gran parte all’export, che corre dall’America al Giappone passando per i Paesi Nordici.

Luca Ferraris, giovane imprenditore, è il nuovo presidente dell’associazione produttori e rappresenta la denominazione al Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato. Al suo predecessore, Marco Crivelli, lo accomunano passione e lungimiranza; molti infatti sono i progetti, legati sia alla comunicazione che ai vincoli produttivi. Un lavoro intenso e capillare, che nel 2015 vede il Ruché di Castagnole Monferrato protagonista di fiere, eventi e seminari in Norvegia, Danimarca, Germania, Repubblica Ceca e Stati Uniti. Allo stesso modo, in un momento di grande espansione, è importante che gli standard qualitativi siano rigidi e ben determinati, perché solo un’identità omogenea può permettere alla denominazione una crescita forte. Ecco allora uno sguardo al disciplinare, con il progetto di innalzare il livello minimo di estratto secco e l’idea, nel futuro, di introdurre la bottiglia unica; inoltre, la volontà di compattare maggiormente la realtà produttiva con l’introduzione dell’erga omnes nello statuto del Consorzio di Tutela, rendendolo, con la partecipazione obbligatoria di tutti i produttori, il punto di riferimento per le decisioni ed il coordinamento di tutte le politiche di promozione, valorizzazione e tutela della denominazione.

Una lunga strada quella del Ruché di Castagnole Monferrato, partita da mani umili e diretta lontano, ma sempre fedele alle sue radici storiche di gioiosa convivialità, come celebra il grande cartello di benvenuto posto ai limiti del comune di origine: “Se a Castagnole Monferrato qualcuno vi offre il Ruchè è perché ha piacere di voi”.

RUCHÉ DI CASTAGNOLE MONFERRATO DOCG

Zona di produzione: l’intero territorio collinare dei comuni di Castagnole Monferrato, Grana, Montemagno, Portacomaro, Refrancore, Scurzolengo e Viarigi, tutti in provincia di Asti. Tipologia: è un vino rosso, ottenuto da uve ruché per almeno il 90%. Ammesso un saldo di uve Barbera e/o Brachetto per un massimo del 10%. Titolo alcolometrico volumico minimo al consumo: 12,5% Designazione, presentazione e confezionamento: è obbligatoria l’indicazione in etichetta dell’annata di produzione delle uve. È ammessa la menzione vigna. Caratteristiche: rosso rubino con riflessi violacei che, a seconda della maturazione, possono virare all’aranciato. Al naso è intenso, persistente, lievemente aromatico, floreale di geranio e di rosa, fruttato e speziato, secondo l’affinamento. In bocca è secco, rotondo, lievemente tannico e di medio corpo. Dati elaborati dal Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato su fonti Valoritalia, CCIAA di Asti e Regione Piemonte.