Beppe Caviola: “Non dobbiamo togliere l’anima al vino”

Vita da Winemaker
di Paolo Valente
24 luglio 2025
Classe 1962, nato a Montelupo Albese, oggi Giuseppe Caviola è considerato uno dei più importanti enologi italiani, con collaborazioni all’attivo in tutta Italia. “Non dobbiamo più esagerare nella ricerca della perfezione”
Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 28 Maggio 2025
Raccontaci come è nata la tua passione per il vino.
Non sono figlio d’arte, papà era macellaio e la mamma commerciante; insieme gestivano il negozio del paese, alimentari e non solo, giornali e tabacchi compresi. Era “la censa”, uno di quei luoghi descritti ne “La Malora” di Beppe Fenoglio. Il negozio era il centro ideale del microcosmo paesano, il centro di dialoghi e pettegolezzi; era il punto di incontro degli agricoltori. In quel tempo si coltivavano grano e nocciola insieme a qualche filare di vigneto di dolcetto d’Alba. Anche noi avevamo pochi filari in un campo fuori dal paese, a tre chilometri. Per il nonno Giuseppe, “Pinotu”, la vigna era qualcosa di fondamentale anche se non era il nostro lavoro. Era molto legato a quei filari, io andavo con lui e quando papà chiudeva il negozio ci raggiungeva. Anche se ero ancora un ragazzino mi piaceva molto stare in vigna e trascorrere il tempo con il nonno, mi dava un senso di pace, di tranquillità. Probabilmente l’attrazione per il mondo del vino, anche se inconsciamente, è nata in quegli anni, a inizio anni Settanta.
Com’era la vita a quei tempi?
Era un periodo bellissimo di una civiltà contadina oggi scomparsa, meno frenetica, non c’erano i cellulari. La vita era scandita dalla necessità di condividere i momenti con altre persone, amici, contadini, che si aiutavano in caso di bisogno passando intere giornate con noi in vigna. Alla sera mamma preparava una cena sublime, ovviamente innaffiata da dolcetto. C’era voglia di condividere momenti di vita semplice ma unici e irripetibili. Porto nel mio cuore questo periodo. Sono momenti che mi hanno trasmesso valori fondamentali: l’umiltà, il rispetto per le persone e per le cose, la fraternità, la solidarietà concreta, testimoniata da azioni generose di aiuto disinteressato. Questo è stato determinante per la mia storia personale e professionale, ha forgiato il mio modo di pormi, rispettando le persone e creando empatia.
E dal punto di vista professionale?
Dopo le medie frequento la scuola enologica di Alba e conseguo il diploma nel 1982; dopo il militare, nell’84, inizio a lavorare come collaboratore di un laboratorio a Gallo d’Alba. Qui faccio analisi per tante aziende importanti per la zona. Carlo Drocco, titolare del laboratorio ed enologo di spessore anche dal punto di vista umano mi ha dato molto; gli sono riconoscente. Inizio così a frequentare tanti produttori e con alcuni lego in modo particolare, empaticamente. Elio Altare, Angelo Rocca, Domenico Clerico, simpaticissimo, e poi i tradizionalisti – Quinto Chionetti, Lorenzo Ancomasso – che erano clienti particolari; iniziai a frequentarli dopo il lavoro, qualche assaggio, la cena insieme. Con la frequentazione inizia il confronto, si parlava dei lavori in vigna; io capivo poco ma, con umiltà, cercavo di imparare e più li frequentavo e più capivo di aver capito poco. La scuola enologica non mi aveva trasmesso quello che mi sarebbe servito effettivamente. Come diceva mio nonno, la pratica è meglio della grammatica.
Poi la svolta e la scelta di diventare vignaiolo
Un giorno decido di affittare una piccola vigna, la vigna Barturot, perché voglio fare le stesse cose dei miei clienti e amici; voglio acquisire maggiore sensibilità, dare il massimo per diventare un bravo enologo. E così, nel 1991, produco i primi settecento litri di vino dolcetto. L’idea era di darlo, in damigiana, ai miei genitori che lo avrebbero venduto nel loro negozio. Un bel giorno ero in laboratorio e avevo un paio di bottiglie di questo vino per analizzarlo; arrivano un po’ di amici, lo assaggiano e ne rimangono stupiti per la qualità. Quasi mi costringono a imbottigliarlo. Due anni dopo si aggiungono altre poche bottiglie di Barbera Bric du Luv. A quell’epoca non avevo una cantina ma solamente un garage e mai avrei pensato di avere poi una cantina tutta mia. Il Barturot ebbe un successo incredibile: fu il primo Dolcetto d’Alba premiato con i tre bicchieri del Gambero Rosso. Seguirono poi altri riconoscimenti anche per la Barbera.
C’è un aneddoto che ti piace ricordare?
Sì, un giorno, in piena vendemmia mi chiama Fabio Scarpitti, sommelier del ristorante stellato Aimo e Nadia che mi chiede di poter visitare la mia cantina. Io rimango stupito e rispondo con estrema trasparenza: volentieri vi accolgo ma non vedrete una cantina ma solo qualche vasca in cemento. Il giorno dopo arrivarono, Fabio, Aimo e Nadia e mi spiegarono che i miei vini erano stati molto apprezzati durante una degustazione alla cieca che avevano fatto nel ristorante. Da lì mi si aprì anche il mercato milanese.
Come arrivò il passaggio alla consulenza?
Avrei voluto buttarmi ma non avevo i mezzi per farlo. Decisi allora di chiedere aiuto a quei clienti con i quali ci scambiavamo pareri e che erano ormai diventati amici; propongo loro di aiutarmi a mettere su un piccolo laboratorio e lavorare per loro direttamente. Mi licenzio e inizio questo lavoro: erano gli anni 1996 e 1997 e unisco questa attività a quella di produttore. Lentamente inizio ad ampliare la mia rete di clienti, da Villa Sparina nel Gavi a Capichera in Sardegna e poi tante altre aziende in Langa ma anche nel resto d’Italia. Nel 2002 il primo riconoscimento come Miglior Enologo dell’Anno conferitomi dal Gambero Rosso.
Com’era l’enologia dagli anni 90 rispetto a oggi?
Innanzitutto è cambiata in meglio e potrebbe ancora cambiare nel corso degli anni perché il vino, nei secoli, non è mai rimasto uguale a sé stesso. Negli anni Novanta c’era voglia di riscatto da parte dei nuovi produttori, quelli che prima non facevano vino e vendevano solo le uve ai mediatori. In quel periodo è nata la nouvelle vague del vino, la voglia di mettere in discussione il passato, modernisti contro tradizionalisti. Si iniziavano a fare scelte diverse in vigna, come per esempio ridurre drasticamente le rese per aumentare la concentrazione, per aumentare l’intensità del colore, anche nel nebbiolo. Si cercava la concentrazione di colore, di naso, di frutto, di bocca. Con il senno di poi possiamo dire che tutti, almeno in certi casi, abbiamo ecceduto con il legno, con l’uso della barrique. Questo eccesso era una cosa condivisa; mi ricordo che si andava al ristorante e si chiedeva “ha fatto barrique, spero?”. La barrique era diventata la moda del momento come oggi può essere l’anfora. Erano anni nei quali i consumatori, i produttori e la critica volevano vini molto strutturati, oggi potremmo dire un po’ pesanti. Anch’io ero convinto che il vino fosse quello. Poi piano piano nel corso degli anni ho cambiato idea, rendendomi conto che l’esasperazione non premia mai.
E oggi?
A partire dagli anni Duemila ho iniziato a interrogarmi, a mettermi in discussione, a fare autocritica e sono arrivato al punto di rendermi conto che dovevo rivedere alcuni aspetti, cambiare strada e mettere in risalto altre cose. Oggi non cerchiamo più l’estrazione ma l’equilibrio, l’armonia e la piacevolezza di beva. Abbiamo capito che un vino piacevole, equilibrato, dal giusto tenore alcolico regge più anni rispetto ai vini che partono molto concentrati. Il vino che ha più estrazione non è quello che regge di più nel tempo. Oggi cerchiamo di sottrarre più che di concentrare, cerchiamo di mantenere e di esaltare le caratteristiche del territorio.
Quale è il ruolo dell’enologo?
Anche se riconosco che ci sono grandissimi produttori non enologi che hanno una straordinaria sensibilità e sono in grado di capire cosa fare per ottenere il meglio da una vigna, noi enologi abbiamo studiato come trasformare l’uva in vino, siamo preparati e sappiamo come gestire i processi chimico fisici; tra l’altro, conoscere la biologia e la chimica ci aiuta a evitare i difetti nel vino. Però aggiungo anche che non dobbiamo essere troppo enologi, troppo tecnici, esagerati nella ricerca della perfezione per evitare di togliere anima al vino. L’anima al vino, secondo me, è data da tante altre cose: quello che hai dentro lo esprimi attraverso il vino. In passato avevo messo in discussione la tradizione, quasi a volerla cancellare, oggi ho capito che la tradizione rappresenta la nostra storia, un elemento imprescindibile dal quale partire per migliorare grazie alla ricerca tecnico scientifica che abbiamo a disposizione. Non la voglio cancellare, ma la posso migliorare con la tecnica.
Qual è il vitigno che preferisci?
Vorrei non dirtelo per non far torto a nessuno ma tieni conto che sono piemontese, ti lascio immaginare... Il nebbiolo è sempre il nebbiolo, io ce l’ho nel sangue.
E la tua zona preferita e quella che per te è stata più sfidante?
Non ho una zona preferita, l’Italia è tutta un Bel Paese perché è unico e straordinario, ha tantissimi vitigni e vini eccellenti che rappresentano delle pietre miliari per ogni area. La regione più sfidante per me è stata la Toscana. Agli inizi della mia carriera vivevo la Toscana come un luogo dalla storia importante e con degli enologi consulenti bravi, anzi bravissimi. Rispetto a noi piemontesi che siamo chiusi e preferiamo non dire che abbiamo l’enologo consulente, in Toscana i produttori non nascondono l’enologo consulente, quindi c’è una maggiore responsabilità. Avere la possibilità di dire la mia su zone straordinarie e avere a che fare con un vitigno come il sangiovese è stata una grande sfida e oggi lavorare con aziende importanti mi gratifica e mi onora.