Claudio Dacasto, l’enologo con la barbera nel cuore

Claudio Dacasto, l’enologo con la barbera nel cuore

Vita da Winemaker
di Paolo Valente
03 gennaio 2025

Classe 1983, nasce in Monferrato, dove continua a curare l’azienda di famiglia, ma viaggia tra Liguria, Piemonte e Sardegna. «Il miglior vino dell’enologo? Quello che farà l’anno successivo»

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 27 Novembre 2024

Claudio, raccontaci di te.
Nasco ad Agliano Terme, nel cuore della barbera, da una famiglia di vignaioli che mi ha trasmesso la passione per la vite e il vino. A 14 anni mi sono iscritto alla Scuola Enologica di Alba che ho concluso nel 2003; poi la laurea in Viticoltura ed Enologia a Grugliasco e ad Asti. Ma già appena finite le superiori ho iniziato a lavorare in uno studio di consulenza durante il periodo della vendemmia e nell’azienda di famiglia. Nel 2011, dopo una breve esperienza in una cantina di Costigliole d’Asti, sono entrato a far parte dello studio di consulenza dell’enologo Giuliano Noè di cui, successivamente, sono diventato anche socio; nel 2015 ho fondato la mia società iniziando a collaborare prima con aziende delle vicinanze per poi allargare il mio raggio di azione: attualmente seguo 32 cantine di Piemonte, Liguria e Sardegna.

Quali sono stati gli incontri fondamentali nel tuo percorso formativo?
Senza dubbio, all’inizio, la Scuola Enologica di Alba mi ha dato tantissimo: ho avuto la fortuna di incontrare professori che mi hanno insegnato molto sia dal punto di vista teorico che da quello concreto, pratico. Poi Giuliano Noè e Beppe Rattazzo dello studio di consulenza con il quale ho collaborato: Beppe mi ha trasmesso tantissimo con la sua infinita conoscenza e il suo grande palato mentre da Giuliano ho imparato anche come si gestisce un’attività di consulenza. Tra chi mi ha dato di più, non posso poi dimenticare mio padre, un classico vignaiolo appassionato di vigneti. A lui devo tanto innanzitutto perché ha avuto sempre fiducia in me e poi perché mi ha trasmesso la sua conoscenza del vigneto. Credo che l’enologo debba essere in stretto contatto con le vigne: se lavori bene in campo anche il lavoro in cantina diventa più facile.

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A questo proposito come è stato il tuo ingresso nell’azienda di famiglia?
Sono entrato in azienda una ventina di anni fa e all’inizio c’è stato lo scontro generazionale; io provenivo da una scuola di impostazione moderna: diradamenti, vinificazioni in legno, affinamenti in bottiglia. Quella di mio padre era invece un’azienda tradizionale; io ho voluto introdurre processi che all’inizio faceva fatica ad accettare ma, alla fine, ha sempre supportato la mia voglia di cambiamento.

Dal tuo punto di vista privilegiato, come vedi le nuove generazioni di vignaioli?
Io seguo principalmente aziende medio piccole, alcune addirittura famigliari, e noto che i giovani stanno portando energia positiva; vedo negli attuali venticinque trentenni più dinamicità rispetto alla generazione precedente, più attenzione anche all’aspetto commerciale. Il mondo del vino è cambiato e quando si vuole creare un’azienda o un vino, secondo me, il primo passo che bisogna compiere è decidere come comunicare quello che si sta facendo, il vino che si vuole produrre. Questo è fondamentale perché l’azienda economicamente funziona se vende le bottiglie che produce; vedo che le nuove generazioni sono più comunicative, più attente a questo. Ma vedo anche un deciso ritorno alla campagna; l’attenzione all’uva e alla vigna sta crescendo. Il cambiamento climatico, la ricerca di una maggiore salubrità dei prodotti, la salvaguardia della natura sono tutti concetti che le nuove generazioni stanno sviluppando molto. In sintesi, i giovani sono molto preparati e attenti a tutti gli aspetti.

Sei nato in terra di barbera, cosa rappresenta per te questo vitigno?
La barbera per me è “il vino”, quello che ho iniziato a conoscere per primo. Vivo in un paese che ha 1500 abitanti e circa 700 ettari vitati a barbera; abbiamo una prossimità con questo vitigno davvero importante. È molto versatile: si può bere da giovane, magari anche nella versione rosé; poi può essere spumantizzata, come alcuni vignaioli hanno iniziato a fare con buoni risultati, e può, se coltivata e lavorata correttamente, diventare anche un grandissimo vino da invecchiamento. Al mondo non ci sono tanti altri vitigni che hanno capacità di esprimersi ad alti livelli con tutte queste sfaccettature.

Rispetto al cambiamento climatico come si comporta?
Stiamo vivendo un momento di innegabili cambiamenti climatici e i vitigni che hanno un patrimonio genetico di acidità limitata stanno pagando un prezzo molto alto, ovvero il calo della freschezza; e non mi riferisco solo a uve bianche. La barbera, invece, ha un’acidità importante; questo livello di acidità, che cinquant’anni anni fa la rendeva un vino non così qualitativamente apprezzato, oggi, le garantisce il mantenimento della freschezza, pur risentendo del cambiamento climatico. Dal punto di vista gastronomico, poi, la barbera è facilmente abbinabile proprio grazie a questa sua acidità.

All’interno di questo panorama, la DOCG Nizza cosa rappresenta?
Il Nizza è la barbera di qualità, è un percorso bellissimo di cui mi sento partecipe; l’ho visto nascere e da alcuni anni faccio anche parte del Consiglio di Amministrazione dell’Associazione Produttori del Nizza. Il disciplinare, severo, è stato impostato per ottenere un prodotto di qualità e longevo: zona di produzione limitata all’area dove effettivamente si trovano i vigneti migliori quantomeno in riferimento alla predisposizione all’invecchiamento, resa di soli settanta quintali a ettaro e una permanenza in cantina di almeno 20 mesi.

Un esempio per le altre Denominazioni?
Penso che il Nizza sia effettivamente una rivoluzione nel panorama delle Denominazioni piemontesi: ci sono più di dieci denominazioni a base barbera, alcune delle quali con il territorio sovrapposto. Questo manda in confusione il consumatore specialmente quello straniero. Il Nizza ha il pregio di identificarsi nel territorio e non nel vitigno; i grandi vini del mondo riportano il nome del luogo in cui nascono e non quello della varietà. Il Nizza è stato il trampolino di lancio per far conoscere al mondo la barbera di qualità.

Come ti poni nei confronti del regime biologico?
Credo che fare il vino biologico sia una missione giusta, così come fare un vino sano. Io seguo alcune aziende biologiche ma il biologico impone anche dei limiti che sono geografici. Ovvero in alcuni territori mantenere un approccio biologico è facile mentre, purtroppo, in altri posti del mondo non tutti gli anni è possibile applicarlo se si vuole raccogliere dell’uva a fine annata. Ad esempio, quest’anno, in Piemonte, a causa della piovosità e della primavera complessa, chi ha gestito i vigneti in regime biologico ha fatto davvero molta fatica. La Toscana, la Sardegna, il Sud Italia hanno clima tale per cui l’approccio biologico diventa più facile. Io penso che il vino prima di tutto debba essere sano e piacevole, se poi lo si riesce a fare in modo biologico è un punto in più.

Il biologico è sostenibile?
La sostenibilità è diventata la base di tutto, anche sul vino bisogna arrivare a raggiungerla: dai pannelli solari per coprire il fabbisogno energetico in cantina alla gestione dei vigneti o all’economia aziendale. Non è detto che i termini “biologico” e “sostenibile” siano uguali e paralleli. Vedo aziende che sul biologico si incaponiscono un po’; secondo me bisogna essere flessibili e non legarsi a dei parametri ma ragionare a 360 gradi e questi ultimi anni ce lo stanno insegnando. Condivido l’approccio di chi fa una lotta integrata dove magari per tre o quattro anni di fila gestisce il vigneto in biologico ma poi arriva l’annata particolare e accetta di trattare in modo diverso. E non dimentichiamo che alcuni prodotti ammessi nel regime biologico se utilizzati in quantità abbondanti diventano dannosi tanto quanto quelli non ammessi. A me piace fare una viticoltura ragionata e non condivido chi fa biologico per marketing mentre apprezzo chi lo applica come stile di vita.

Preferisci i vitigni autoctoni o quelli internazionali?
Di base preferisco gli autoctoni ma non mi dispiacciono anche gli internazionali. Sono un grande amante del riesling nonostante io provenga da una zona dove siamo stati allevati a barbera. L’autoctono è un punto di forza dell’Italia vitivinicola; nessuna nazione può vantare un patrimonio ampelografico come l’Italia. Se devo scegliere, preferisco i vitigni autoctoni perché mandano un messaggio anche dal punto di vista comunicativo; è una via per raccontare il vino. 

Secondo te ci sono differenze tra il gusto del vino italiano e il gusto del vino internazionale?
Sì, ci sono differenze. Se Italia, Francia e Germania partono da una maggiore tradizione vinicola e i vini possiedono un profilo più locale caratterizzato dal territorio di produzione, nel nuovo mondo, piuttosto che in altre nazioni, c’è la tendenza a intervenire e a standardizzare i vini affinché rivelino un gusto meno variabile rispetto alla zona di provenienza. D’altra parte, in questi Paesi il contesto pedoclimatico non è così variegato come in certe regioni europee dove anche al solo spostarsi di qualche chilometro il profilo di terreno e clima cambiano e, di conseguenza, anche il vino è differente. Inoltre, nel nuovo mondo il vino si è sviluppato in un contesto diverso e non ha la storicità e la tradizionalità che possono avere altre regioni; si producono vini che sono piacevoli ma con meno asperità e dal timbro un po’ omologato. Ovviamente non si può generalizzare.

I tuoi progetti futuri?
Ho alcune idee per l’azienda di mio padre che negli anni è cresciuta ma vorrei svilupparla ulteriormente; poi ho un altro paio di progetti in Piemonte di cui non posso ancora parlare. I progetti sono sempre tanti ma forse il principale è quello di cercare, a livello personale, di migliorarmi dal punto di vista tecnico. Il miglior vino di un enologo è quello che farà l’anno successivo, perché avrà un po’ di esperienza in più ad aiutarlo. Io sono sempre molto severo con me stesso; un mio collaboratore mi dice che spesso lo sono troppo… Voglio continuare a mantenere la mia filosofia: cercare di conoscere e interpretare ogni vitigno al meglio, permettergli di esprimere le sue potenzialità. Al territorio privilegio il vitigno quando quest’ultimo è collocato nella sua area di elezione. ◆