Fabio Mecca: l’enologo al centro della cantina

Fabio Mecca: l’enologo al centro della cantina

Vita da Winemaker
di Paolo Valente
11 febbraio 2023

«L’autoctono? È un viaggio più intenso nel territorio. Il biologico deve essere un'impostazione di vita e non una strategia per attivare un mercato»

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 23 Novembre 2022

Fabio, raccontaci un po’ di te.
Ho quarant’anni e, nonostante gli studi classici, ho saputo da sempre che avrei fatto l’enologo. La scuola elementare era vicino alla cantina Paternoster, la cantina di famiglia, e in classe stavo con la testa girata verso la finestra per vedere se arrivava l’uva; appena terminate le lezioni scappavo in cantina per attendere i camion o lavorare per l’imbottigliamento. Per me è stata una scelta naturale. Ho fatto la maturità classica perché me lo ha chiesto mio padre che ringrazio per avermi consigliato questo indirizzo. Poi sono andato a Polignano Veneto dove mi sono laureato. Ho avuto la fortuna di fare il tirocinio da Isole e Olena, da Paolo De Marchi, e questo è stato molto importante dal punto di vista formativo. Ritornato in Basilicata, nella mia terra, ho deciso di intraprendere altri percorsi per accrescere la mia capacità di lavorare e ho avuto la fortuna di collaborare con Roberto Cipresso diventando il responsabile di tutte le aziende che lui seguiva nel Centro Sud Italia. La nostra collaborazione è durata quattro anni poi, di comune accordo, abbiamo ritenuto che fossi in grado di camminare da solo. Da aprile 2010 ho dunque iniziato la mia attività di consulente che mi porta oggi a seguire una ventina di cantine in tutta Italia, dalla Toscana alla Sicilia.

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Qual è il territorio che preferisci tra quelli in cui lavori?
Ho la fortuna di lavorare in tante microzone dalle caratteristiche uniche: la zona del nero di Troia, oppure quella del Vesuvio o quella della DOC Melissa in Calabria, solo per fare alcuni nomi. Sono piccoli territori che hanno le loro peculiarità e in ogni territorio c’è una caratteristica unica che a me piace andare a scoprire e che venga tracciata all’interno del vino.

Preferisci il territorio o il vitigno?
Io prediligo molto di più il territorio. Ritengo che il vitigno sia comunque molto importante ma il territorio ha la capacità di dare una marcia in più al vitigno perché viene sempre a marcare quelle che sono le caratteristiche di un vitigno. Al contempo però mette anche in evidenza i limiti di alcuni vitigni piantati in territori non vocati. Prendiamo ad esempio il Primitivo: sicuramente è un grande vino, un vino potente con una grande struttura e alcolicità, ma il risultato che abbiamo quando è piantato a 50 metri sul livello del mare, in un territorio prettamente sabbioso, è totalmente diverso da quello che si ottiene da un primitivo piantato a 450/500 metri all’interno del Parco del Pollino in un territorio di origine quasi vulcanica con calanchi e con una struttura di terreno unico.

Preferisci i vitigni autoctoni o quelli internazionali?
Vitigni autoctoni tutta la vita!

Perché?
Secondo me è molto più divertente lavorare con gli autoctoni. Sicuramente la storia enologica italiana ci insegna che noi dobbiamo tanto ai cabernet e merlot che ci hanno permesso di comprendere la reale potenzialità e qualità della nostra enologia in tanti territori, però l’autoctono è un viaggio più intenso nel territorio. Confrontandoti con un vitigno autoctono hai la capacità di comprendere ancora di più quello che il territorio ti vuole dire, ti vuole raccontare e anche l’interpretazione del produttore riesce a esprimersi al meglio rispetto al vitigno.

Quali sono i vitigni che preferisci?
Relativamente alla bacca bianca, il vitigno che mi piace di più è la falanghina anche perché ho la possibilità di lavorarlo in quattro regioni differenti: Lazio, Campania, Basilicata e Puglia. Mi piace molto lavorare con la falanghina perché è come se avessi intrapreso una sorta di crociata. Mi rendo conto che, quando parli di falanghina, negli occhi delle persone c’è una sorta di stanchezza, si aspettano la solita falanghina piacevole ma senza emozioni. Io invece, per tornare ancora al concetto di territorio di cui parlavo prima, ho sempre cercato un’identità specifica. Con la stessa varietà riesco a ottenere vini diversi. Per la bacca nera, questa è una domanda non corretta! D’istinto dovrei rispondere: “l’aglianico” per mille ragioni, perché per me è tutto, senza di lui non avrei avuto la possibilità di fare nulla ma, se potessi scegliere, direi il gaglioppo perché con lui ho un conto in sospeso. Seppure stia lavorando sul territorio da 7 o 8 anni è sempre una scoperta. Il gaglioppo è un vitigno indomito, con un tannino marcatissimo, sempre presente, con un colore difficile da gestire; quindi, è quello che mi stimola maggiormente perché devo ancora trovare l’equilibrio perfetto.

Qual è il tuo approccio verso il biologico?
Il biologico è qualcosa che da sempre applico cercando di spiegare anche ai produttori che il biologico deve essere anche un’impostazione di vita e una scelta su come affrontare il vigneto. Non deve essere una strategia per attivare un mercato o, ancor peggio, lo scopo per ottenere finanziamenti comunitari, come forse era stato fatto all’inizio. È un modo di coltivare possibile da sostenere, occorre prestare attenzione, seguire e interpretare sempre l’annata, non si può lavorare a calendario. Inoltre, oggi la tecnologia ci ha permesso di fare dei passi da giganti, ad esempio possiamo pensare a dei funghi antagonisti che ci permettono di controllare l’attività microbica in campo. Quindi c’è una modalità più scientifica e molto più concreta che a me piace molto. Con un’azienda ho intrapreso anche un percorso di vinificazione vegana. Inizialmente ero scettico, quasi dubbioso, mentre ora mi sono quasi innamorato di questo percorso e mi piace tantissimo gestirlo e portarlo avanti. Con un’altra cantina, quest’anno, abbiamo impostato la prima vendemmia senza solforosa; seppure la conduzione sia biologica, il nostro obiettivo è quello di avere vini senza solfiti aggiunti. Ci credo, ci credo tanto e credo possa essere un elemento importante dal punto di vista etico anche se non credo che solo questo possa risolvere il problema del buco dell’ozono. Ma se è possibile utilizzare una viticoltura più interattiva con il vitigno, il clima e il territorio è una cosa buona.

E cosa ne pensi della biodinamica?
Mi sono approcciato alla biodinamica più volte però non dal punto di vista dell’operatività ma da quello della degustazione. Mi trovo fortemente combattuto perché ci sono delle realtà biodinamiche che producono vini di ottima qualità ma, personalmente, non riesco ancora a crederci. Penso che il vino sia chimica, un equilibrio chimico scientifico che deve essere rispettato e comunque attuato.

Cambiamenti climatici: cosa occorre fare in vigna per contrastarli?
Bisogna, in primo luogo, andare a modificare i disciplinari. Porto un esempio: l’Aglianico del Vulture. Il disciplinare scritto negli anni ’70, giustamente, non prevedeva l’irrigazione, nemmeno quella di soccorso. Con i cambiamenti climatici a cui stiamo assistendo è diventato veramente difficile affrontare la fase vegetativa senza poter irrigare in una condizione di soccorso. Non parlo di un’acqua di sostentamento, di crescita o di fertirrigazione. E sono tantissimi i disciplinari con queste indicazioni che, secondo me, bisognerebbe modificare dando al viticoltore la possibilità di portare le uve a maturazione. Inoltre, occorre cercare di lavorare e valutare meno l’estetica del vigneto; oggi è meglio cercare di lasciare l’uva coperta, perché bisogna proteggerla: da un momento all’altro ci sono cambiamenti repentini di clima, può arrivare un forte acquazzone, una grandinata. Sto consigliando alle mie aziende di lasciare le viti le più scombussolate possibili in modo da dare una maggior protezione alle uve. Andando poi, una ventina di giorni prima della vendemmia, a cimare e togliere le foglie. Più si riesce a preservare il frutto meglio è.

E in cantina?
Dal punto di vista enologico ci sono dei cambiamenti importanti che sono in atto, come ad esempio i valori di calcio che sono arrivati alle stelle. Sono 2 o 3 anni che noi enologi ci siamo trovati di fronte a un mondo nuovo, cioè l’instabilità del calcio. In un tempo normale di regolare maturazione fenologica delle uve il calcio riusciva a essere degradato nell’attività fermentativa e metabolica dell’uva stessa per arrivare a valori normali. Negli ultimi tempi le temperature così elevate hanno creato problematiche e noi enologi abbiamo dovuto cercare di risolvere questa anomalia.

Cosa ne pensi dell’uso della solforosa?
Io sono un amico della solforosa, non ho dubbi! Ritengo che la solforosa sia un elemento fondamentale da usare in ogni fase di vinificazione, affinamento, imbottigliamento perché è un antisettico e permette di mantenere il vino in uno stato di equilibrio chimico. Ci sono altri coadiuvanti, come potrebbe essere l’acido ascorbico o delle molecole tanniche che anch’io sto provando, ma, a tutt’oggi, non credo abbandonerei mai la solforosa. È possibili fare dei vini con livelli di solforosa aggiunta più bassi, ma la solforosa c’è sempre perché si forma anche in vinificazione. È quella che ti garantisce il risultato nel tempo.

Quali sono le persone che ti hanno lasciato un insegnamento particolare, un’emozione?
Ho avuto la fortuna di fare una degustazione con Domenico Clerico. Assaggiare i suoi vini, ascoltare i suoi racconti, le sue interpretazioni di vendemmia, vedere le sue grandi mani che lasciavano trasparire ore di lavoro in vigna, mi ha fortemente emozionato e ho capito che è possibile scrivere poesie anche parlando di vini. Un altro grande maestro è stato Paolo De Marchi perché mi ha insegnato in modo tangibile il concetto di cru. Con lui si vinificavano anche solo alcuni filari separatamente dagli altri perché lui trovava nella composizione chimica di quel determinato suolo delle caratteristiche cha valeva la pena tenere separate. Poi Marco De Bartoli, figura istrionica ed emozionante.

Secondo te, l’enologo è più tecnico o artista?
L’enologo nasce come colui che doveva sistemare il vino prima che venisse venduto, poi è diventato una rock star, ora ha fortunatamente ricominciato ad avere una dimensione più terrena. Ho una visione particolare proprio perché vengo da scuole importanti di grandi nomi ma ho la fortuna di lavorare in territori difficili dove occorre lottare quotidianamente con condizioni economiche particolari. Una cosa è vendere Brunello e altro è vendere montonico o gaglioppo. Credo l’enologo sia una figura centrale che deve essere presente all’intero della cantina. Deve essere una sorta di general manager: si deve occupare del vigneto, della cantina, ma anche dell’aspetto di comunicazione, del racconto dei vini, deve essere presente con gli agenti o gli importatori, deve incontrare i giornalisti e tanto altro ancora. L’enologo è una sorta di allenatore che mette in equilibrio i punti di forza e quelli critici di una cantina e fa sì che la coralità possa far trasparire l’identità dell’azienda.