Gabriele Valota: «Con i vitigni PIWI ho scoperto la vera sostenibilità»

Gabriele Valota: «Con i vitigni PIWI ho scoperto la vera sostenibilità»

Vita da Winemaker
di Paolo Valente
22 luglio 2022

Rispetto per l’ambiente, empatia con il produttore ma soprattutto amore per il territorio. «Il bello di fare l’enologo è quello di lasciar esprimere un territorio»

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 22 Maggio 2022

Come è nata la tua passione per il vino e la decisione di diventare enologo?
Ho studiato agraria a Treviglio e l’approccio al mondo del vino è avvenuto proprio a scuola; cosa strana, se vogliamo, perché Treviglio non è un’area vocata al vino. Durante il quinto anno di agraria venivano tenuti dei laboratori e io mi iscrissi a quello sulla microvinificazione: la scuola comprava 10 quintali di uva e produceva il suo vino. È stato il mio primo contatto; quello che ha fatto nascere in me l’interesse per questo mondo sebbene fuori dalla tradizione della mia famiglia.

Interesse però inizialmente accantonato…
Infatti, finiti gli studi superiori ho lavorato per un anno in un salumificio ma a un certo punto mi sono chiesto se quella fosse la mia strada. Decisi che avrei fatto qualcosa di diverso, qualcosa per cui avevo studiato. Avevo due alternative: il mondo del latte o il vino. In quell’epoca il latte era in crisi e quindi mi sono rivolto al mondo del vino. Ho dato le dimissioni e mi sono iscritto all’Università con grande motivazione. Volevo concludere il percorso di enologia in tempi brevi perché avevo voglia lavorare il più presto possibile.

Quando hai cominciato veramente a “mettere le mani in pasta”?
Per il tirocinio del secondo anno ho scelto una zona spumantistica, e la più vicina era la Franciacorta. Per mia fortuna, ho fatto il tirocinio da Barone Pizzini. L’anno successivo, mi hanno richiamato per fare nuovamente la stagione. E sono ritornato. Il contratto, da stagionale, si è poi trasformato in contratto a tempo indeterminato ancora prima di laurearmi. Sono contento di essere rimasto. Barone Pizzini è un’azienda biologica, la prima a credere nel bio in Franciacorta e io ne ho sposato fin da subito la filosofia.

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Poi è arrivata la svolta della consulenza.
In Barone Pizzini ho potuto sperimentare autonomamente tante pratiche di cantina. Ho così raggiunto una certa esperienza anche grazie a qualche piccola consulenza e all’essere diventato consulente enologo nella scuola agraria di Treviglio dove avevo studiato. A quel punto mi sono chiesto nuovamente: “voglio restare qui o fare qualcosa di diverso?”. Nel dicembre 2017 ho lasciato l’azienda iniziando l’attività di consulente. Anche rischiando qualcosa.

Come è arrivato il tuo interesse per i vitigni PIWI?
Conoscevo dai tempi dell’Università Alessandro Sala, proprietario dell’azienda Nove Lune, una cantina della bergamasca impegnata nella sperimentazione di vitigni PIWI. Abbiamo iniziato a collaborare e da qui è nato il mio interesse per i vitigni PIWI. In quegli anni poi, è nata l’associazione PIWI Lombardia; ho così cominciato a lavorare anche con altre cantine visto che conoscevo già questi vitigni. Oggi mi trovo a collaborare con tante aziende che fanno propria la filosofia della sostenibilità. Se prima di conoscere il mondo PIWI pensavo di essere già sostenibile, ho dovuto ricredermi scoprendo cosa davvero sia la sostenibilità. Se in un anno hai bisogno di fare solo uno o due trattamenti (o magari nessuno) è allora che si raggiunge davvero un alto livello di sostenibilità.

Ci sono delle differenze di gestione delle varietà PIWI rispetto a quelle convenzionali?
Premettendo che agronomo ed enologo devono andare di pari passo, dal punto di vista agronomico, le viti PIWI sono sì resistenti o tolleranti ma non sono totalmente invincibili e dunque non possono essere abbandonate a loro stesse. Occorre prestare attenzione all’umidità, adottare delle buone pratiche agronomiche come, ad esempio, una particolare forma di defoliazione. Dal punto di vista enologico invece, le uve sono, spesso e volentieri, da considerarsi al pari delle varietà convenzionali. Nel senso che non occorre fare grossi interventi. Bisogna essere un po’ più attenti a riconoscere i campanelli di allarme che il vino ti lancia. Per esempio, quando si assaggia un vino PIWI non si può rapportarlo ai parametri degli altri vitigni ma si devono per forza conoscere le caratteristiche del vitigno e imparare, in funzione delle differenti tecniche di vinificazione, a comprendere di cosa ha necessità: di ossigeno, di un travaso, di follature eseguite in un certo modo.

Cosa dà in più un vitigno PIWI ad un vino?
Una caratteristica importante rispetto ad altre varietà è la buccia più spessa. Se queste varietà sono lavorate non in bianco ma in macerazione, possono esprimersi al meglio e puoi permetterti il lusso di macerare l’uva per più tempo ottenendo maggiori aromi, cosa che, su un vitigno convenzionale, è più difficile. Quindi, buccia più spessa, maggiore possibilità di macerare ma occorre prestare sempre grande attenzione.

Quali sono gli effetti provocati dal global warming che tu, nel tuo lavoro quotidiano, constati maggiormente?
Il global warming impatta maggiormente sul lavoro in vigna piuttosto che quello in cantina. Il problema principale è l’anticipo delle maturazioni. Il rischio è di arrivare a maturazioni non complete per la parte relativa ai polifenoli o agli aromi. E la differenza tra fare un vino e un buon vino sta proprio lì. Tante cantine non hanno ancora capito, o fanno fatica a gestire, il corretto giorno della vendemmia. Questo è uno degli aspetti importanti e ti permette di fare il 50% dell’opera. Occorre trovare il giusto bilanciamento tra zuccheri, acidi, polifenoli e aromi. Il climate change ti porta a non avere l’equilibrio perfetto e devi scendere a compromessi, a volte non appaganti.

Che strumenti si hanno in vigna per contrastare tutto questo?
A livello di campo si può cercare di posticipare la maturazione: sui nuovi impianti andando a scegliere portainnesti meno vigorosi e sui vigneti esistenti, per esempio, con la potatura tardiva. È una pratica non molto diffusa che consiste, dopo una prepotatura tipicamente invernale, nell’effettuare la potatura definitiva a gemme schiuse solo quando i nuovi germogli apicali hanno raggiunto una lunghezza di circa 5 cm. Questo consente di posticipare la fioritura e quindi la maturazione anche di venti giorni su alcune varietà. Inoltre, dopo l’invaiatura si possono fare anche delle cimature strategiche. In sintesi, si cerca di sfruttare lo stress arrecato alla pianta per tentare di frenarla e rimandare nel tempo la maturazione.

La defoliazione è un metodo che funziona?
Dipende dalle varietà, dalla ventilazione del luogo e dall’epoca fenologica in cui si esegue. Faccio un esempio: se per una varietà a grappolo compatto il mio scopo è quello di rendere il grappolo un po’ più spargolo, faccio una defoliazione in fioritura affinché la pianta si stressi, perda un po’ di fiori e quindi renda il grappolo un po’ più spargolo. Se invece la defoliazione viene fatta per togliere l’umidità può essere eseguita da un lato solo, quello meno esposto al sole preservando così, nell’altro lato, la funzione di protezione dei grappoli dalle scottature.

Secondo te, l’enologo è più tecnico o più artista?
Credo sia più tecnico. Un enologo può essere artista quando fa un blend e quindi crea un’armonia e questa viene influenzata dal suo gusto. In ogni caso, è comunque maggiormente tecnico perché questa è una piccola fase rispetto a tutto il processo di realizzazione di un vino.

Cosa ne pensi di quello che viene definito “il vino dell’enologo”, ovvero quando in un vino la mano dell’enologo è facilmente riconoscibile?
Secondo me è un peccato. Il bello di fare l’enologo è quello di lasciar esprimere un territorio e soprattutto esprimere quello che il titolare di un’azienda desidera dare come impronta. Per questo è molto importante il rapporto umano, l’empatia che si crea tra produttore ed enologo. Si riesce a capire veramente quello che è il risultato voluto, l’obiettivo; e tu enologo hai le conoscenze e le capacità, con le tecniche di vinificazione, di arrivare a un risultato vicino a quello desiderato. Poi è normale che ogni enologo abbia il suo stile. Io, per esempio, amo i vini tendenzialmente più freschi e non troppo evoluti, in quanto considero l’evoluzione un invecchiamento precoce del vino. E questo, assaggiando i vini delle aziende con cui collaboro, è una caratteristica che si riscontra facilmente.

Come dovrebbe essere gestito il legno?
Secondo me, il legno deve essere soltanto percepito, bisogna che a chi assaggia il vino venga il dubbio se ha subito il passaggio in legno oppure no. Quando un sommelier assaggia il vino e ti chiede “ha fatto legno?” ho raggiunto il mio obiettivo, il legno magari si sente ma non troppo. In questo caso sono riuscito a trovare l’armonia. Penso che il bello sia far esprimere i vitigni e il territorio.

Cosa preferisci tra territorio e vitigno?
Entrambi: vitigno e territorio devono andare di pari passo. Un vitigno, uno chardonnay, per esempio, coltivato in Lombardia si esprime in un certo modo mentre lavorato in provincia di Ragusa, su altri suoli e altri climi, si esprime con diverse modalità. Inoltre, non tutte le varietà possono essere piantate in qualunque territorio. Sono grato di fare questo lavoro perché ho proprio la possibilità di confrontarmi con tanti vitigni e tanti territori. Il bello è, come consulente, portare delle tecniche utilizzate in un territorio in un altro. Questo mi permette di non omologarmi allo stile locale.

Qual è il tuo vitigno preferito?
Se dovessi proprio scegliere, un vitigno rosso con cui sto lavorando molto e che ho molto a cuore è il nebbiolo. Tra i bianchi non ho un vitigno preferito, però forse il solaris, un PIWI, al momento ha qualcosa di caratteristico che lo fa distinguere dagli altri vitigni. È un vitigno che a seconda dei luoghi dove viene coltivato dà delle sfaccettature molto interessanti.