Lorenzo Landi: vitigno e territorio, una simbiosi imprescindibile

Lorenzo Landi: vitigno e territorio, una simbiosi imprescindibile

Vita da Winemaker
di Paolo Valente
05 gennaio 2022

Buon senso, equilibrio e approccio razionale al servizio del produttore. «Il cambiamento climatico? Nessuno ha la soluzione, però intervenire sul problema è fondamentale»

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 21 Novembre 2021

LE ESPERIENZE IN FRANCIA HANNO CAMBIATO IL SUO APPROCCIO NEI CONFRONTI DELLA PROFESSIONE E DEL VINO?
Ho lavorato in Francia all’inizio del mio percorso e quindi non so se questo abbia effettivamente modificato il mio approccio; sono stato in Borgogna praticamente prima di iniziare a lavorare mentre a Bordeaux nei primi anni. La cosa fondamentale che ho però imparato è stato l’approccio meno tecnologico rispetto a quanto avveniva in Italia. Un approccio, anche da parte degli enologi, molto più viticolo e territoriale, legato ai terreni, ai microclimi e ai suoli. La tecnologia era vista come il modo per mantenere il territorio, per preservarne le caratteristiche e non per fare quello che si vuole. Questa, credo, che fosse la differenza principale, almeno per quegli anni; parlo dei primi anni ‘90 e forse ancor prima quando in Italia non si parlava molto di territorio, cru, singola vigna. La tecnologia è importante solo se riesce a mantenere quello che la natura ha dato al territorio e all’uva.

CHI È L’ENOLOGO, PIÙ ARTISTA O SCIENZIATO?
Personalmente non ho un approccio, in linea generale e non solo del lavoro, magico-mistico come abbastanza spesso sembra caratterizzare la nostra società. Ho un approccio razionale; mi piace capire cosa succede e poi adattare l’agire in base alle conoscenze. Innanzitutto non credo che il vino lo faccia l’enologo. È per questo che la parola “winemaker” non mi è mai piaciuta. Il vino lo deve fare il produttore. L’enologo deve solo dare dei consigli in base all’idea del produttore e in base a questa l’enologo deve dire: “se vuoi fare questo vino, devi fare queste cose”. Ma il tutto deve essere funzionale alle idee del produttore e non dell’enologo. In questo senso, noi enologi, siamo solo dei suggeritori: dobbiamo conoscere le conseguenze degli atti che avvengono in cantina e quindi dare dei consigli al produttore su come comportarsi. Una conoscenza razionale e scientifica al servizio del produttore.

GUARDANDO IN PROSPETTIVA, CON IL CAMBIAMENTO CLIMATICO IN ATTO, QUALE SARÀ IL FUTURO DELL’ENOLOGIA?
Francamente non lo so. So solo che abbiamo di fronte una sfida importante. Il riscaldamento globale determina dei cambiamenti decisivi delle uve che maturano sempre prima. E maturano a una temperatura sempre più calda, con una sorta di effetto moltiplicatore.

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COSA SIGNIFICA?
A causa del caldo l’uva matura prima, ma proprio perché matura prima, lo fa a una temperatura più alta. La situazione ci mette di fronte a grandi cambiamenti. L’anticipo di 3 o 4 settimane nella maturazione delle uve, e quindi della vendemmia, non può essere sottovalutato. Ci troviamo davanti a questa sfida: fare vini molto concentrati, magari anche un poco cotti e poco territoriali oppure fare vini freschi e rivedere molte pratiche agronomiche ed enologiche. Non potendo intervenire direttamente e significativamente sul riscaldamento globale dobbiamo cambiare qualche approccio. Adesso l’abbiamo capito: bisogna rivedere alcune attività per ritardare la maturazione e riscoprire l’aspetto territoriale.

QUALI SONO LE PRATICHE CHE DOVREBBERO ESSERE RIVISTE?
Negli anni ’70 e ’80 avevamo il problema, reale, delle maturazioni tardive con conseguente problema di marciume e botrite. Per questo motivo sono stati scelti cloni precoci: ecco qualcosa che deve essere rivisto. Lo stesso vale per i portainnesti che, scelti abbastanza deboli, anticipavano le maturazioni. Deve anche essere riconsiderata la superficie fogliare, oggi molto ampia; le esposizioni a sud forse non sono più le migliori; si potrebbe poi pensare di impiantare vigneti in terreni a quote più elevate. Non voglio dire di avere la soluzione in tasca; sono cose che dovrebbero essere provate per verificarne la validità e, in alcuni casi, i tempi per il riscontro sarebbero molto lunghi. Credo che nessuno abbia la soluzione, però intervenire sul problema è fondamentale.

QUAL È L’ASPETTO DEL SUO LAVORO CHE PREFERISCE?
L’aspetto che preferisco è forse quello che contemporaneamente mi piace di meno. Vedere persone diverse, zone differenti mi è sempre piaciuto molto ma, dato che odio viaggiare, è la cosa che mi piace di meno; è stato sempre un grosso sacrificio. Ma è comunque qualcosa che dà grandi soddisfazioni. Un fenomeno che si osservi, per esempio, in Sicilia può dare degli spunti per un altro territorio. La comparazione, il vedere come le cose possono essere uguali e diverse al tempo stesso; credo sia molto utile per gestire, o provare a gestire, situazioni differenti tra loro.

QUAL È IL SUO APPROCCIO ALLE TECNICHE BIOLOGICHE O BIODINAMICHE?
Quando mi sono laureato le tecniche che oggi definiamo “convenzionali” la facevano un po’ da padrone, anche se la biodinamica era ben conosciuta. Certamente non c’era tutto questo fiorire di aziende biodinamiche. Io credo che dal punto di vista razionale dobbiamo pensare alla salute dell’ambiente, dell’uomo e tutto ciò che ci circonda. Non sono del tutto certo che l’approccio biologico estremo – ovvero quello che dice “è naturale quindi è buono” e tutto il resto è cattivo – sia l’approccio migliore per la sostenibilità. Non ne sono certo così come non sono certo del contrario. Noto però che ci sono dei composti che non sono naturali, ma sono biodegradabili al contrario magari di altre sostanze che sono naturali ma non biodegradabili. Non so se l’approccio biologico sia il migliore, ma comunque è un metodo con cui si cerca di fare qualcosa e quindi deve essere accolto con favore. Credo ci siano altri approcci che vanno sempre nella direzione della sostenibilità che forse dovrebbero essere meglio indagati, come, per esempio, usare prodotti velocemente biodegradabili oppure molto poco tossici. Forse in questo senso non si fa abbastanza. Il metodo biodinamico, invece, è un metodo che ha chiaramente una parte di verità rivelata, non è un approccio totalmente razionale. Prende forma dalle idee di Rudolf Steiner e trovo che in parte abbia anche una relazione stretta, un fondamento molto solido, con la realtà oggettiva mentre in altri casi il rapporto mi sfugge un po’ di più. Resta sempre e comunque un tentativo di rapporto sostenibile con la natura. Forse non l’unico.

QUINDI, COS’È LA SOSTENIBILITÀ?
Diciamo che dovrebbe essere un modo di lavorare sostenibile nel tempo che tende a ridurre il degrado continuo del mondo in cui viviamo, dal numero di specie viventi alla biomassa e alle risorse idriche. Non è facile definire oggi quali siano i metodi sostenibili e quali quelli non sostenibili, escludendo ovviamente gli estremi. Credo che tutti dobbiamo fare qualcosa in questo senso. I metodi biologico e biodinamico hanno fatto già qualcosa, ma si possono individuare anche altre metodologie.

PREFERISCE IL TERRITORIO O IL VITIGNO?
Le due cose vanno insieme, non c’è modo di separarle. Una non può avere la prevalenza. La scelta del vitigno deve essere fatta in base al territorio e il territorio non può esprimersi se non con un vitigno appropriato; allo stesso modo i vitigni si esprimono solo nei territori vocati. Le due cose vanno insieme. Non esisterebbe Bordeaux senza il cabernet sauvignon e non esisterebbero i grandi cabernet sauvignon se non ci fosse Bordeaux. Però anche un grande territorio può essere rovinato facilmente scegliendo un vitigno sbagliato.

LEI PREDILIGE I VITIGNI INTERNAZIONALI O QUELLI AUTOCTONI?
I vitigni internazionali, sostanzialmente francesi, sono coltivati in zone più a nord rispetto alle nostre; se li portiamo in zone calde e siccitose maturano precocemente e a temperature più alte quindi si scottano, perdono le loro caratteristiche e quelle del territorio. Secondo me i vitigni internazionali sono troppo precoci per le nostre zone. Ma questo non vuol dire che non mi piacciono i vitigni di Bordeaux, della Borgogna o della Loira ma è meglio coltivarli nelle loro zone di origine. Non è un caso che le varietà autoctone italiane siano generalmente tardive. Credo che portare i vitigni dal nord al sud sia un’operazione sbagliata. Al contrario, portarli dal sud al nord è fattibile visto il riscaldamento climatico ma poi dobbiamo porci il problema dell’abbinamento tra territorio e vitigno.

COSA NE PENSA DEI VINI MACERATI, ATTUALMENTE MOLTO DI MODA?
Il mio maestro, Denis Dubourdieu, aveva fatto una serie di sperimentazioni su quello che lui chiamava “invecchiamento difettoso” dei vini bianchi e rossi ovvero l’invecchiamento ossidativo. Aveva analizzato vini della Borgogna, di Bordeaux e del Rodano. Il risultato della ricerca fu che con l’invecchiamento ossidativo le differenze tra i vari vini si appiattivano notevolmente perché i composti aromatici che caratterizzavano l’uva e il territorio sostanzialmente venivano distrutti e si creavano delle sostanze che erano sempre le solite indipendentemente dal vitigno e dal territorio. Queste sostanze, poche in verità – due o tre per i bianchi e una per i rossi – erano sempre presenti. Questo significa che la grande diversità di territorio può esistere, aromaticamente, solo se non c’è ossidazione. L’ossidazione porta a un appiattimento aromatico. Questo fenomeno, comunque, non si verifica solo per il vino; per esempio se si preparano le confetture, con temperature troppo alte, è difficile riconoscere persino il frutto impiegato. Non è detto che tutti i macerati siano fortemente ossidati, ma quelli fortemente ossidati portano alla perdita del territorio e su questo non posso, francamente, essere d’accordo.

C’È UN TERRITORIO CHE PREDILIGE?
Non c’è solo un territorio italiano che mi piace; ce ne sono molti. E questa è la grande forza del nostro Paese ma, al tempo stesso, è anche una possibile debolezza. Noi abbiamo tanti piccoli territori di grande qualità che dal punto di vista commerciale sono difficili da comunicare. Credo, per esempio, che, per i vini rossi, l’Etna, alcune zone della Toscana e l’area di Taurasi siano territori straordinari. Ma l’elenco sarebbe molto lungo.

FINITA QUESTA INTERVISTA, QUALE SAREBBE LA BOTTIGLIA CHE APRIREBBE?
Per non fare torto a nessuno, rivolgo il mio sguardo fuori dall’Italia. Aprirei un grande bianco di Borgogna anche se, purtroppo a causa del riscaldamento globale, non ne sono rimasti tanti. Oppure berrei volentieri un rosso di Bordeaux degli anni ’80.