Nico Danesi, dall’uva al vino senza integralismi

Nico Danesi, dall’uva al vino senza integralismi

Vita da Winemaker
di Paolo Valente
27 gennaio 2021

Viniplus di Lombardia - N°19 Novembre 2020 | Un tecnico con il pallino della ricerca. Osservatore della natura e dei suoi processi, ha codificato il “Metodo Solouva”

Tratto da Viniplus di Lombardia N°19 - Novembre 2020

QUAL È STATO IL TUO PRIMO APPROCCIO AL MONDO DEL VINO?
Ho iniziato con una vendemmia in Franciacorta durante la quale ho apprezzato questo mondo. Poi il mio spirito inquieto mi ha portato, per alcuni anni, a fare altre esperienze lavorative. A 23 anni ritorno al vino e inizio a frequentare la Facoltà di Enologia da poco istituita all’Università di Milano; qui conosco il professor Attilio Scienza che sarà poi la mia fonte di ispirazione. Ricordo ancora come un’esperienza umana bellissima il Campus che si teneva a Riccagioia (PV); negli anni ’90 c’era una straordinaria voglia di fare nel mondo dell’enologia italiana.

DOPO LO STUDIO, COME SEI PASSATO AL LAVORO?
Con il tempo mi sono persuaso che sarei dovuto diventare quella figura che piaceva tanto al professore e che sta a metà tra l’agronomo e l’enologo, una sorta di viticoltore-enologo. Quindi iniziai a lavorare in provincia di Avellino occupandomi principalmente di vigneti e di uve, di tutto quello che sta a monte delle attività di cantina. La cosa fondamentale di quel periodo furono i quintali di uva che mangiai; imparai effettivamente cos’è il frutto che poi verrà trasformato in vino. Un’esperienza successiva mi portò in Francia per studiare la micro-ossigenazione, una tecnica prettamente vinicola, a mio avviso fra le più importanti dell’enologia moderna.

POI IL RITORNO IN FRANCIACORTA
Dove incontrai Alberto Musatti del quale sono diventato socio iniziando l’attività di consulenza. È stato un ritorno alle origini, a quella terra che la mia famiglia, con la generazione precedente alla mia, aveva lasciato per dedicarsi ad altro. Quella vendemmia fatta tanti anni prima aveva messo il seme della passione per il vino e stava dando i suoi frutti. Oggi non mi occupo più del settore agronomico; lo lascio fare a chi è specializzato e ha più esperienza di me in questo campo. Mi limito a coltivare solo le terre di proprietà dell’azienda che ho in società con Giovanni Arcari.

QUAL È STATO L’INCONTRO FONDAMENTALE PER LA TUA CRESCITA PROFESSIONALE?
Direi che sono stati due: quello con il professor Attilio Scienza, che mi ha fatto innamorare in modo viscerale di questo lavoro, e poi quello con il mio mentore, Alberto Musatti, che ritengo sia il miglior enologo che abbia mai conosciuto. È una persona capace di entrare in qualsiasi meccanismo scientifico e pratico nell’ambito del vino con una logica e una puntualità uniche.

COSA SIGNIFICA PER TE FARE QUALITÀ?
Significa comprendere i meccanismi che portano alla valorizzazione di quello che hai. Sia che si tratti di uva, di ambiente o di possibilità umane. L’enologo consulente si deve adattare a quello che trova in cantina e in vigna. L’importante è che tu faccia tutto ciò che è nelle tue possibilità per raggiungere il risultato migliore. Esiste un piano immediato: cominci a lavorare con quello che hai, poi, magari, con il tempo, cerchi il miglioramento, in cantina, in campagna, nelle conoscenze delle persone. Dire “così non lo posso fare” non credo sia mai una soluzione. Occorre trovare un percorso che sia compatibile con il livello qualitativo desiderato. Forse è un poco abusata come similitudine, ma è come un allenatore con una squadra.

DUNQUE, IN SENSO ASSOLUTO, LA QUALITÀ NON ESISTE?
La qualità esiste in riferimento a quello che effettivamente puoi fare e che ti prefiggi come obiettivo. È logico che mirerai all’eccellenza. Ma, anche qui, cos’è l’eccellenza? È quella che leggi in un libro? Quella che ti racconta qualcuno che ha fatto il vino prima di te? È quella che si sente in giro? Ho visto territori mutare radicalmente il modo di fare il vino e quindi il concetto di eccellenza. A volte seguendo le mode, altre volte i dettami della qualità. Prendiamo, ad esempio, il Lugana, un territorio che ha raggiunto negli ultimi anni un enorme successo. Io non so il perché di questo successo: potrebbe essere il territorio, la forte presenza di turisti, il nome del vino facile da ricordare. Non lo so. Però quello che interessa me, come tecnico, è che negli anni si è raggiunta una tipologia di vino molto, molto precisa; non ci sono particolari deviazioni. Avendo un prodotto definito hai la traccia e un percorso qualitativo indicato. La stessa cosa è successa negli ultimi trent’anni nel territorio di produzione del Barolo o in Franciacorta.

COME DEFINIRESTI L’ENOLOGIA?
L’enologia è, forse, l’interruzione di continuità del processo entropico che va dalla formazione del grappolo alla dissoluzione dello stesso in CO2 e acqua. L’enologia inizia quando si stacca il grappolo dalla pianta e si crea una deviazione in questo processo. L’enologo utilizza un prodotto naturale, l’uva, che trasforma con dei microrganismi naturali, i lieviti, applicando delle tecniche e delle conoscenze acquisite nei secoli attraverso l’operato delle persone.

L’ENOLOGO È PIÙ ARTISTA O SCIENZIATO?
Io personalmente mi sento un semplice tecnico, ho una discreta cultura che non riguarda il vino, sono un grande bevitore di vino. Sono un tecnico che sta dietro le quinte; questo è il percorso che Alberto Musatti mi ha suggerito e che, insieme ai miei colleghi Andrea Rudelli e Stefano Torre, abbiamo seguito; siamo persone schive che non amano stare in primo piano.

QUAL È IL TUO RAPPORTO CON LA BIODINAMICA?
Ho amici e colleghi che rispetto che ne seguono i dettami; io, non conoscendo il tedesco e non essendo in grado di leggere gli scritti originali di Rudolf Steiner e quindi di comprenderne profondamente il profilo filologico della persona, sospendo il giudizio. Per una introduzione alla materia un poco fuori dagli schemi rimanderei alla lettura di due “L’Enologo” qualche anno fa. Credo, comunque, che intorno al movimento biodinamico si sia anche tanto speculato legando e confondendo i concetti di biodinamico, naturale o non antropizzato.

OVVERO?
Il vino è un prodotto profondamente antropizzato, se non partiamo da lì non riusciamo a comprendere il tutto. Non ci sono altre colture arboree così fortemente connesse all’uomo come la vite. Prendi un caco o un fico: anche se non li poti producono sempre i frutti; invece la vite, se non la poti o non la governi, dopo pochi anni cesserà di fare uva o, meglio, non darà più frutti atti alla produzione di vino sia in termini di qualità che, soprattutto, di quantità. E se non ci fosse interazione tra uomo e uva non ci sarebbe il vino.

E IL BIOLOGICO?
Con l’agricoltura biologica vi è la volontà di migliorare un mondo che andava verso una deriva non più sostenibile. Ma anche in questo caso, molti hanno preso il pacchettino e lo hanno applicato. Per esempio, l’uso del rame. Quanti hanno riflettuto sulle conseguenze del suo utilizzo, su quanti danni provoca all’ambiente, sia nell’immediato che nel futuro? Biologico è il pensiero che unisce molte delle persone che lavorano nel mondo del vino e che cercano di fare il meglio, in primis per sé stessi visto che in quell’ambiente vivono insieme alle loro famiglie. Solo perché non hanno un’etichetta “bio” mi rifiuto di pensare che, a priori, facciano qualcosa di dannoso. È per me un pensiero duro da digerire perché sono le persone con cui lavoro ogni giorno. Facciamo un altro esempio. L’utilizzo o meno di anidride solforosa che, come tutti sappiano, è un conservante, un antiossidante, un antisettico. Se per non usare la solforosa produco un vino ossidato o instabile microbiologicamente, non mi sembra di aver fatto una grande scelta. Credo che l’enologia sia un percorso, un’evoluzione e non una ricetta che vada bene per tutte le stagioni: naturalmente è positivo mettere in dubbio qualche passaggio e trovare soluzioni alternative. Io il vino lo faccio e lo bevo, e con me i miei amici. E faccio sempre, in ogni momento, tutto quello che posso affinché sia un prodotto più sano possibile ma anche gradevole, bevibile.

MI SEMBRA QUINDI CHE SEI CONTRO OGNI INTEGRALISMO?
Se dicessi questo diventerei anch’io integralista. Direi invece, per citare una frase non mia, che sono razzista con i razzisti. Sono contro quelle persone che vogliono spiegarmi come va la vita, che vogliono mettermi i piedi in testa. Con questi divento critico. Accetto invece di buon grado e senza pregiudizi i consigli di chi è in grado di dimostrarmi che un processo è più valido o efficiente di uno che sto utilizzando io.

PARLACI DEL METODO “SOLOUVA” DA TE CODIFICATO
Innanzitutto vorrei precisare che non ho inventato nessun metodo. “Solouva” è un insieme di osservazioni fatte in particolare da Alberto Musatti e da altri colleghi e produttori, citerei Giuseppe Vezzoli come primo sostenitore e compagno di strada. Siamo partiti dall’osservazione di un aspetto: negli ultimi anni alle nostre latitudini, vale a dire in Franciacorta, le uve maturano un po’ di più rispetto a quanto dovrebbero quelle che si usano come base spumante, con il risultato che hanno un contenuto zuccherino e, di conseguenza, alcolico maggiore. La domanda che ci siamo posti è: perché dovrei costringere la produzione a una vendemmia anticipata per contenere il grado zuccherino solo per giustificare un metodo e un modello di riferimento, che prevede l’aggiunta di zuccheri per la seconda rifermentazione? Perché non dare spazio all’espressione del frutto di quel territorio che si sviluppa fenologicamente a un tenore alcolico potenziale di 11,5-12,5%? Da qui la soluzione di utilizzare un mosto per la rifermentazione per non incrementare il tenore alcolico dello spumante ottenuto. Una tecnica banale che si usa da moltissimo tempo; vedi, uno per tutti, la storiografia dei metodi ancestrali. Inoltre, dal punto di vista enologico, si riesce a conferire una profilazione maggiormente territoriale visto che il vino base rifermenta con i propri zuccheri. Da un punto di vista organolettico è evidente come sia differente aggiungere un mosto ricavato dalle uve delle tue vigne anziché utilizzare uno zucchero di canna che probabilmente arriva dall’altra parte del mondo.

QUAL È IL TUO VITIGNO PREFERITO?
Il mio vitigno preferito, che per me rappresenta la connessione tra l’uva, il vino e l’evoluzione endogena su questo pianeta, è la barbera. Credo sia il vitigno più duttile che esista. L’abbiamo vinificato e assaporato in qualsiasi maniera. Enologicamente è stimolante. La barbera cambia radicalmente anche il frutto di partenza a seconda delle quantità di produzione, delle condizioni ambientali, dei luoghi di coltivazione; è davvero interessante. Con la barbera si può ottenere uno spumante, uno spumante rosa, un vino da pronta beva o uno da invecchiamento, un vino molto strutturato oppure uno fresco e leggero. Ha acidità e una componente antocianica molto bella ed è abbastanza facile da coltivare. Un vitigno umile e discreto come piace a me. E che, come tutte le cose discrete, alla fine sono sempre utili.