De Toma, quando il Moscato di Scanzo vola alto

De Toma, quando il Moscato di Scanzo vola alto

Interviste e protagonisti
di Sara Missaglia
11 febbraio 2023

Per chi ama i cieli e li attraversa con jet supersonici è importante amare la terra, trait d’union con la storia di un vino e di una famiglia

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 23 Novembre 2022

Staccare l’ombra da terra è il primo effetto del volo: perdere il contatto anche solo con quel contorno scuro che appare come il ricordo di noi e, all’interno dell’abitacolo di un aereo, prendere il volo. Manovre studiate, riprovate e testate più volte, nella chirurgica precisione di una check list ripercorsa per la sicurezza, in primis dei passeggeri. Allontanandosi è possibile cogliere tutto ciò che ci sta intorno, dove coralità e visione sono le istantanee di un mondo sempre più lontano, in cui l’altitudine crea non distanza ma nostalgia. Nell’aria non si lasciano impronte, sulla terra sì: il desiderio di tornare a casa ha il sapore della vittoria, ogni volta.

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Living on a jet plane (Jonh Denver, cit)
Giacomo De Toma, classe 1963, è un produttore di Moscato di Scanzo ed è un pilota: l’ordine è casuale, nel cuore non ci sono mai priorità. Filari al posto della pista di decollo, con l’amore per un vitigno che ha radici profonde nella storia della sua famiglia. I racconti di Giacomo partono da lontano e, nel ripercorrere la storia le spalle, non sono mai voltate al futuro, con gli occhi che continuano a guardare oltre. «Sono un predestinato, erano talmente tante le probabilità che le cose potessero andare in un modo diverso che deve esserci un disegno preciso per essere qui, oggi, a produrre il nostro vino». Siamo nel 1400 e tutto ha inizio da lì, da quando alcuni antenati della famiglia, originari di Ravenna, i fratelli Mandelli, si arruolano come soldati di ventura al fianco dell’Imperatore di Germania e di Muzio Attendolo, detto “lo Sforza”, per la liberazione di Milano. I condottieri portano a casa non solo la vittoria, ma anche gloria, onori e denari: in primis il riconoscimento dello stemma con i tre leoni, sigillo dei tre fratelli, e poi terre di proprietà nella zona di Scanzorosciate. Domenico Mandelli, discendente della famiglia, fisico dell’epoca e proprietario di molte delle terre del comune, nel 1824 acquista dalla famiglia di Giacomo Quarenghi altri appezzamenti nei dintorni: da uno di questi, oggi in attesa di certificazione come “vigneto storico”, ha inizio la storia dei De Toma. Domenico Mandelli, privo di eredi diretti, lascerà il patrimonio a Carolina, la bisnonna di Giacomo. Carolina sposa Giuseppe De Toma, originario di Arona: dalla loro unione nasce Giacomo De Toma, il nonno del Giacomo “pilota” dei giorni nostri. Il nonno è medico chirurgo, si appassiona al moscato di Scanzo allevato nei vigneti di proprietà e continua a produrlo su scala maggiore rispetto al consumo domestico. «Il vitigno era all’epoca una sorta di Araba Fenice, tutti lo conoscevano ma nessuno lo beveva: era riservato infatti a una ristretta cerchia di nobili e di altolocati, elemento lieto e apprezzato nei lunghi inverni di conversazioni, ma nulla di più. Mio nonno diede corso ad un’ampia rivalutazione del vitigno, e per questo motivo oggi siamo la più antica famiglia esistente produttrice di Moscato di Scanzo», ci racconta Giacomo.

Alla corte degli Zar
I suoi occhi brillano, innegabile orgoglio di un passato che ha radici profonde. E da questo momento storia e leggenda si confondono, con il moscato alla corte degli Zar di Russia: ad esempio di Caterina II, amante di questo vino proveniente dalla vigna storica ricevuto in dono da Giacomo Quarenghi, architetto di corte e, secondo i gossip dell’epoca, amico intimo dell’Imperatrice. Verrebbe da dire un vino seduttivo, da ogni punto di vista. Poi la vita prende un’altra strada: un sorso di vino, una folata di vento, una porta che si chiude e un portone che si apre. Qualcuno le chiama coincidenze, altri imprevisti, altri ancora destino: sono le porte di una nuova pagina prima da vivere e poi da scrivere, e a spalancarle non è un romanzo ma una bellissima storia d’amore. Le carte si mescolano nuovamente, e il tavolo da gioco non è più piano ma può diventare in salita. Il nonno di Giacomo, siamo ai primi del Novecento, si innamora della locandiera, lui 40 anni, lei 22: lascerà la moglie, una Pesenti di Città Alta, avrà dalla compagna, che mai potè sposare, nove figli e perderà cognome e comunione, scomunicato dalla Chiesa. Venne diseredato dalla madre e si vide fortunatamente assegnati la casa padronale, dove oggi vivono i genitori di Giacomo, e il terreno del Moscato di Scanzo. Nacque così il papà di Giacomo, che vide riconosciuto il cognome della famiglia solo molti anni dopo. «Fu una grande storia che fece notizia per l’epoca: mio nonno fu un eversivo, un rivoluzionario, un visionario. Ruppe gli schemi e lo fece con grande spirito di avventura, guidato dalla passione. Purtroppo morì improvvisamente alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, lasciando mia nonna in condizioni difficili dal punto di vista economico e sociale. Proprietà e Titoli di Stato diventarono, con il conflitto bellico, carta straccia e la nonna iniziò a valutare la vendita di alcuni terreni. Ancora una volta il destino ci mise lo zampino: la casa dei miei genitori venne presa dal comando tedesco, e la loro presenza garantì in qualche modo cibo per sfamare i figli. Mia nonna vendeva stoffa per consentire il sostentamento della famiglia, ma la presenza dei tedeschi in casa portò sostentamento alimentare e beni di prima necessità, merce rara per il periodo di guerra. In cambio la riserva di vino sparì, gradita dall’occupante, così come qualche mobile e pezzo d’arte. Mio padre, ultimo maschio in famiglia, venne esonerato dal servizio militare, e rimase a Scanzo, portando avanti la produzione del moscato».

Sempre in controtendenza
Negli anni ’70, con il decadimento della mezzadria e l’abbandono delle campagne per effetto dell’abbaglio di un lavoro nelle grandi città, il padre di Giacomo investì in totale controtendenza nella terra e valorizzò la produzione del vino di famiglia piantando barbatelle di moscato in nuovi terreni acquistati, dove ha sede oggi la cantina. «Un matto, così veniva definito: era imprevedibile e riusciva ad anticipare i tempi. Con l’acquisto di questo vigneto precorse quello che si realizzò negli anni ’80 con il ritorno alle campagne e la ripresa di un’agricoltura e di una viticoltura locale» – prosegue Giacomo – «Come è accaduto in Franciacorta, l’apporto di nuovi capitali fece sì che la produzione sotto l’aspetto qualitativo registrasse un balzo in avanti. Da Lecco a Lovere tutti producevano Moscato di Scanzo, in assenza tuttavia di un disciplinare. La nostra famiglia con altri produttori di Scanzorosciate decise di tirare una riga, dando vita a un’associazione con l’obiettivo di lavorare per migliorare il prodotto e fare un po’ di chiarezza». Sarà questo il primo nucleo di quello che ha portato alla nascita della prima DOC, con i primi due anni sotto il cappello della Valcalepio, e poi alla DOCG, con il primo Consorzio autonomo. Realtà dimensionalmente ridotte ma di grande qualità, quasi a dire che “piccoli ma buoni” sia la strada corretta.

I ricordi di infanzia
Il racconto di Giacomo è ricco di particolari intimi legati a un’infanzia dove ha conosciuto, attraverso i volti dei familiari, il senso della gioia e della fatica, tra vendemmia e lavoro in vigna, la paura per le condizioni climatiche avverse e gli insegnamenti del papà, che è scomparso recentemente all’età di 92 anni: nel pronunciare il proprio cognome c’è molto di più di un dato anagrafico. Dalle emozioni e dai ricordi affiora un senso del fare di cui la cultura familiare è fortemente impregnata, e dove il dovere veniva sempre prima del piacere. «Non ho memoria di una volta in cui mio padre mi abbia detto bravo per qualcosa: prendevo 6 o 10 a scuola e la reazione era esattamente la stessa. Papà sapeva essere rude e a tratti ruvido: la mia mamma era una persona forte, e arrivava a mediare tante situazioni delicate. Lei si occupava della gestione della famiglia, da questo punto di vista era una manager ante litteram, compensando creatività e genio del papà». E poi le immagini legate alla vendemmia di quando era bambino, con il desiderio di salire sul cavallo che trainava le uve raccolte: essere piccini e sentirsi improvvisamente grandi come condottieri di ritorno dalla guerra, in un percorso di festa nella discesa dal vigneto al paese, dove allora aveva sede la cantina. E ancora il rumore della carrucola: all’andata, quando si trasferivano le cassette di uve moscato nel solaio per essere distese per l’appassimento, e al ritorno, quando venivano calate per la pigiatura. Rumori e profumi tra vigna, solaio e cantina che entrano nel cuore e restituiscono la scena, oggi come allora: un lavoro ricco di profumi inebrianti, soprattutto sottoterra, premio sui volti stanchi per la fatica. Il buio della cantina forse regalava magia e immaginazione, amplificando le capacità sensoriali.

Il Moscato di oggi e di domani
Oggi Stefania, Alessandro ed Eleonora sono i pilastri di Giacomo: moglie e figli belli come il Moscato di Scanzo verrebbe da dire, così legati alla terra e all’azienda da sentirsi pienamente integrati nell’avventura ai giorni nostri della cantina. Giacomo vede un futuro per il suo vitigno “slegato” dalla dimensione dolce, con aspetti di gradimento e di godimento amplificati: promette a sé stesso di lavorare affinché possa in futuro essere più conosciuto anche attraverso la conquista di nuovi mercati e di nuovi consumatori, con uno scarto maggiore dal vino per il Natale o da dessert che lo ha perimetrato per lungo tempo. Noi siamo qui, voliamo prevalentemente in vacanza: ti aspettiamo Giacomo agli “Arrivi”, con un calice in mano.