Graziana Grassini. Sulle orme di Giacomo Tachis
Vita da Winemaker
di Paolo Valente
19 dicembre 2025
Il decisivo incontro con l’inventore del Sassicaia e poi un lungo percorso professionale che l’ha portata ad avere rapporti stabili con realtà di primo piano a livello internazionale
Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 29 Novembre 2025
Nata a Scarlino, in provincia di Grosseto, Graziana Grassini sogna di diventare maestra, è attratta dalle materie scientifiche ma, al tempo stesso, sente l’esigenza di “usare le mani” per creare qualcosa di nuovo. Si diploma all’istituto Tecnico Industriale per Chimici e a soli 19 anni apre un laboratorio di analisi agroalimentare. Facendo le analisi dei vini per piccoli produttori sente il bisogno di approfondire questo mondo e inizia gli studi per diventare Enotecnico. Si diploma nell’anno dello scandalo del metanolo e così il suo laboratorio si riempie di campioni di vino. In seguito, si laurea in Scienze Biologiche all’Università di Pisa e di recente frequenta un master in Analisi Sensoriale, fedele all’insegnamento del suo grande mentore, Giacomo Tachis: “Graziana, non smettere mai di studiare”.
Quale è stato l’incontro più importante per la sua vita professionale?
Quando mi sono diplomata come enotecnico, mi hanno consigliato di candidarmi per far parte del Consiglio della sezione toscana dell’Associazione Enotecnici Italiani, come allora si chiamava l’Assoenologi. Inaspettatamente sono stata eletta; è stato fondamentale per la mia carriera perché ho conosciuto Giacomo Tachis che era il presidente regionale. Mi ha stimata fin da subito nonostante la mia giovane età. In quel periodo ero consulente del Castello del Terriccio dove mi occupavo solo dei vini bianchi: ne portai un campione a Tachis che lo apprezzò particolarmente e mi spronò a proseguire su quella strada.
Lei è una delle prime donne consulenti enologo d’Italia. Essere una giovane donna in un settore dominato dalla presenza maschile le ha portato qualche difficoltà?
No, mai. Non mi sono mai sentita inferiore. Per questo devo ringraziare mio padre che mi ha considerato sempre al suo livello e non mi ha mai fatto percepire che ci sono due generi diversi; mi ha fatto fare tutto quello che faceva lui. Non mi sono mai sentita in difficoltà nemmeno con i cantinieri più anziani, né tantomeno loro mi hanno mai fatto sentire inferiore. L’unica cosa che mi ha messo a disagio talvolta è stata quella di provenire da una zona di mare: ho radici maremmane, un territorio che allora non era considerato vocato per la viticoltura.
Quali sono stati i rapporti con Giacomo Tachis?
Gli ho voluto bene e mi ha voluto bene, è stata un’amicizia durata 25 anni. A lui devo solo dire “grazie”. È stato importante per la mia carriera, con lui ho conosciuto il marchese Incisa della Rocchetta e mi ha presentato all’Istituto Vite e Vino della Regione Sicilia, dove ho lavorato per cinque bellissimi anni ricchi di tanti progetti e al fianco del professor Di Stefano, un grande uomo di scienza.
Come è cambiata l’enologia da quando ha iniziato a lavorare ad oggi?
È cambiata molto. È stato fatto un percorso molto bello, dal punto di vista tecnologico e biotecnologico. L’enologia si è perfezionata ma è anche cambiata. Si è legata al territorio e oggi la viticoltura è diventata estremamente importante per la progettazione di un vino. Quando ho iniziato io, l’enologo operava in cantina e si limitava a trasformare l’uva in vino. Le sue conoscenze erano sufficienti per ottenere un vino buono. Oggi, finalmente, si considera il vigneto come elemento fondamentale. All’epoca era solo Giacomo Tachis che diceva che il vino si fa partendo dalla vigna, oggi questo è un pensiero consolidato e lo sosteniamo tutti.
Si è forse perso il concetto di “vino dell’enologo”.
Per fortuna! Il vino deve essere dell’azienda, non può essere dell’enologo che comunque contribuisce in modo importante. Nel mio caso, do molta importanza al profilo olfattivo, che deve essere nitido, pulito, senza deviazioni. Per questo mi dicono che il mio stile si riconosce e ne sono felice. Il vino deve comunque riportare alla coerenza tra il vitigno e il territorio e deve essere l’espressione della filosofia del produttore. Io posso dare dei consigli ma è poi lui a doverne definire l’identità.
Predilige il vitigno o il territorio?
Entrambi. Il territorio è fondamentale specialmente se il vino è frutto di un blend, perché il carattere del suolo e la combinazione con il clima devono sentirsi in modo chiaro. Il blend si deve esprimere sapendo emozionare anche se si perde un po’ l’espressività di ogni singolo vitigno. In caso invece di vino varietale, è necessario fare esprimere la varietà in quel territorio. Io preferisco bere un vino che sia espressione di un vitigno; sono soddisfatta se trovo rispondenza nel calice. Sintetizzando, mi piace il vitigno declinato nei diversi territori.
Qual è il suo vitigno preferito?
I gusti cambiano e se in passato avevo delle preferenze, oggi ne ho altre. Mi piacciono i profumi e la loro intensità, ad esempio di un bel sauvignon blanc con i suoi sentori di frutto della passione e di pesca, ma mi affascina anche il riesling per la sua complessità e signorilità. Altri vitigni che amo sono il vermentino e il cataratto, provenienti da territori molto diversi ma dotati di grande carattere.
E per quanto riguarda i rossi?
Sono sempre stata legata al cabernet e al merlot ma pongo attenzione anche agli autoctoni famosi come il sangiovese e quelli da scoprire come schioppettino e recantina.
Cosa ne pensa del biologico e del biodinamico?
Personalmente apprezzo molto il regime biologico perché è normato e ha una storia di anni. Possiamo discutere se le regole siano corrette o meno, se si potrebbe fare di più o meglio ma se si seguono le norme applicandole bene e con convinzione, il biologico mi appassiona. La mia esperienza dice che, a livello di espressione aromatica, i vini da vigneti coltivati in biologico presentano profumi più netti. In questo momento di cambiamento climatico fare biologico è più difficile e le aziende che riescono a farlo sono da premiare perché devono superare tante problematiche. Relativamente al biodinamico, chi ci crede fa bene a farlo. Non lo conosco a sufficienza e non fa parte della mia cultura di persona di scienza perché si basa su regole empiriche. In ogni caso, sono pratiche tutte interessanti purché chi le applica ci creda veramente. Chi lo fa solo per marketing non fa bene né al biologico, né al biodinamico e neanche alla sostenibilità.
A proposito di sostenibilità…
Oggi talvolta si cercano le certificazioni per vendere meglio il vino ma così non funziona e non funzionerà mai. Ci sono cantine che fanno un bel percorso sulla sostenibilità perché i proprietari ci credono fortemente, credono nel rispetto di chi lavora, nel rispetto per l’ambiente, e non agiscono solo per marketing. C’è invece chi si dichiara sostenibile e poi ha bottiglie che pesano tantissimo, o non si occupa del consumo di acqua. Inoltre, penso sia impossibile fare un vino dealcolato ed essere sostenibili. Credo nella coerenza, nella verità, nel rispetto delle regole e nella sostanza più che nella forma. La forma deve vestire la sostanza.
Cosa significa fare qualità oggi?
Nel passato fare qualità significava fare le cose in modo corretto dal punto di vista tecnologico, anzi, solo con la tecnologia si pensava di ottenere vini buoni. Oggi, secondo me, significa esprimere l’identità di un territorio nel calice ma anche essere coerenti, rispettare ciò che si dice ed essere veri.
Quale ritiene sia stato il suo più grande successo?
Credo sia stato e sia tuttora quello di aver instaurato lunghi rapporti con le aziende.
C’è qualcosa che non l’ha pienamente soddisfatta?
Forse avrei dovuto stare più vicina a mio figlio, dedicargli più tempo, pensare più a me stessa e ai miei affetti piuttosto che al lavoro.

